A Nando

di Agostino Arciuolo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la prefazione-recensione che Agostino Arciuolo scrisse nel 2012 in occasione della presentazione del libro di racconti del prof. Ferdinando Rogata.  È il tributo, così ci ha riferito, che in questa occasione sente di dovere a una persona che ha stimato e che stimerà sempre.


Quando, in una calda mattina d’estate, il Prof. Rogata mi prese per un braccio mentre stavo a spasso per la piazza e, con mia sorpresa, mi disse di volermi affidare l’incarico di curare la sua prossima pubblicazione, un fremito di eccitazione mi attraversò dalla testa ai piedi. Per quanto la proposta mi giungesse inaspettata, mi sentii subito pronto ad accoglierla e accettai la sfida senza pensarci su. Una sfida, sì: non che Nando (mi sia concesso, da qui in avanti, chiamarlo così) me l’avesse lanciata come tale, ma per me lo è stata fin dal principio. Una sfida: quella di riuscire a mettere ordine nello straripante calderone creativo che Nando venne ad affidarmi appena qualche giorno dopo, senza alcuna istruzione per l’uso. “Fanne quello che vuoi” fu l’unica cosa che mi disse, “lascio tutto nelle tue mani”.

Non dirò qui, anche per evitare il rischio di sembrare retorico, quanto mi abbia fatto onore e piacere poter leggere in anteprima le ultime fatiche letterarie di un uomo le cui poesie mi hanno spesso tenuto compagnia. Né dirò di quanta responsabilità mi sono sentito investito nel sapere di dover portare a termine l’arduo e delicato compito di curarne la pubblicazione. Dirò invece che, alle prese con tutto quel materiale narrativo, mi sono più volte trovato disorientato, piacevolmente confuso, come un fanciullo smarrito in un bosco pieno di gustose primizie.

Così, quando, qualche settimana dopo, Nando mi prese di nuovo per il braccio dicendomi: “Lo so che è difficile, ma tu vai avanti, non ti fermare”, capii una cosa che da solo, senza quel suo incoraggiamento, non sarei mai giunto a capire: che cioè l’unica maniera possibile di leggere i suoi racconti è quella di abbandonarsi al flusso narrativo, lasciarsi catapultare nei fantomatici luoghi in cui esso conduce senza opporre la minima resistenza, senza badare a come ci si è arrivati o a come fare per uscirvi, senza volere insomma restare per forza aggrappati a un presunto filo conduttore.

Quando poi, un paio di giorni dopo, intravidi Nando che, comodamente seduto nell’abitacolo della sua panda sgangherata, leggeva il giornale in assoluta tranquillità mentre intorno a lui infuriava un traffico d’inferno, in mezzo ai clacson e alle urla degli autisti più spazientiti, capii pure un’altra cosa: che cioè è possibile fermarsi all’incrocio dei venti, restare immersi per ore in uno stuolo assordante di voci e di rumori, senza perdere la calma e la lucidità necessaria per provare a mettervi ordine. Ed è così che ho tentato di fare.

Nel farlo, però, non sono comunque riuscito ad evitare di sentirmi come affetto da labirintite, al punto che, in certi momenti della lettura, ho persino avuto la chiara impressione di essere, a modo mio, una piccola Alice alle prese con i Bianconigli, gli Stregatti e i Brucaliffi di un Paese delle Meraviglie che, pagina dopo pagina, veniva sempre più prendendo forma e consistenza.

A ogni modo, è solo dopo aver rinunciato una volta per tutte al tentativo di scovare, dentro al susseguirsi inarrestabile delle vicende narrate, una direzione di marcia, un verso, un significato (sia esso letterale o metaforico), che il garbuglio delle storie ha cominciato piano a srotolarsi, a dipanarsi ordinatamente davanti agli occhi. Ed è solo dopo aver abbandonato ogni tentativo di cercarlo che alla fine ho potuto scorgere, e a tratti persino afferrare, il bandolo della matassa. Un po’ come accadde al pittore Apelle, il quale, secondo un curioso aneddoto, preso dalla rabbia per non riuscire a rifinire alcuni dettagli di un suo dipinto, ottenne il risultato voluto solo quando, con un gesto di stizza, gettò sulla tela la spugna che usava per detergere i pennelli.

Così, un po’ Apelle e un po’ Alice, ne sono infine venuto a capo. E, alla fine, qualcosa sulle forme e sui contenuti della scrittura di Nando posso permettermi di dirla.

Per prima cosa dirò che l’impressione dalla quale si può essere inizialmente travolti, sfogliando e dando un’occhiata veloce a queste pagine, è quella di avere tra le mani un’accozzaglia, sconnessa e messa insieme alla rinfusa, di tante storielle sganciate l’una dall’altra. Inutile dire che non può esserci impressione più fuorviante. Già ad una prima lettura la raccolta si rivela infatti per quella che è: un unico, avvincente e sinuoso romanzo picaresco, polifonico e assortito, che vede avvicendarsi sulla scena una miriade di eccentrici Don Chisciotte, accompagnati da altrettanto stravaganti Sancho Panza, che, nel tentativo di prendere di petto le avversità del proprio piccolo mondo, finiranno sempre, dopo averlo percorso in lungo e in largo senza mai giungere a destinazione (sempre ammesso che una ce ne fosse), per sbatterci disastrosamente contro, spesso inciampando sui propri stessi piedi.

Leggere Nando è un po’ come avere tra le mani un’opera che, in barba a ogni anacronismo, sembra scritta a quattro mani da François Rabelais e Giovanni Boccaccio. Di Rabelais Nando ricalca la verve satirica, il tono goliardico e canzonatorio, il farsi beffe di ogni moralismo e, non da ultimo, il ricorso frequente ad un linguaggio triviale, sporco, scurrile, quando non esplicitamente sconcio, osceno, spudoratamente corporeo. Si pensi, per dirne una, al nome di un personaggio che ricorre in più di una novella (Culone) e al nome del luogo in cui esse sono per l’appunto ambientate (Culonia). Per non dire dell’incipit mozzafiato del racconto d’apertura, il quale fornisce immediatamente una chiara e spiazzante testimonianza di tale scelta linguistica. Elementi boccacceschi sono invece riscontrabili nel proposito, pur mai dichiarato dall’autore, di dipingere un ampio affresco del mondo contemporaneo, un mosaico che ne raffiguri le mille facce senza però tradirne la complessità. Una rappresentazione, insomma, che, senza pretese di universalità, faccia emergere in controluce tutti i contorni del nostro tempo, i suoi abbagli e le sue ipocrisie, le promesse disattese e le innumerevoli speranze fallite, le miserie materiali e spirituali, nonché le gioie più spontanee e genuine (le stesse di sempre, dopotutto). E, nel fare ciò, Nando consegna la parola a coloro che il nostro tempo, presente o recente che sia, lo hanno subito e lo subiscono sulla propria pelle, finendone quasi sempre travolti, schiacciati sotto le macerie di un mondo allo sfacelo.

Tra i pittoreschi personaggi che si muovono su e giù per le geografie strampalate dei racconti si trovano infatti, tanto per citarne qualcuno: una lavandaia impertinente che, per paura di perdere la propria “paperetta”, se la fa “inchiodare” da un ragazzo più giovane e bello del marito; due ragazzi, di nome Nando e Luciano (sarà ogni riferimento puramente casuale?), che, armati di forchetta, partono per compiere un attentato contro l’odiato presidente del loro paese (il cui nome è già tutto un programma), finendo però per riprendere la via di casa a testa bassa, sconfitti e disillusi, senza aver concluso nulla; un allegro cuoco, Emilio, che abbandona il redditizio ristorante di sua proprietà per emigrare verso “uno di quei paesi dove la gente muore di fame”, a preparare da mangiare per chi ne ha davvero bisogno; un pover’uomo, Tore, inghiottito senza scampo da un imperscrutabile labirinto burocratico, che lo porta ad errare senza meta per le strade e i palazzi di una anonima città, ostile e disumana; un cavaliere che intraprende un lungo viaggio alla ricerca di un castello lontano, salvo poi tornare sui propri passi nel vederlo divampare tra le fiamme all’orizzonte; un uomo triste e solitario, il cui unico scopo nella vita è quello di andarsene all’altro mondo dando il minor fastidio possibile allo scorrere degli eventi, affermando in sua discolpa: “Scusate se sono nato, non l’ho fatto apposta”. E poi ancora: bambini ubriachi che fanno un falò con la bara del nonno dopo averne mangiato il cadavere, soldati goffamente ligi ai dettami di un potere superiore, uomini che divorano la propria compagna per troppo amore, donne dal culo enorme e intoccabile, politici rozzi e corrotti, vecchi signori con la gamba di legno e compagnia bella.

Anche le ambientazioni, a partire già dalla stessa toponomastica, sono altrettanto bizzarre: nell’arco dell’intera raccolta si passa da Culonia, trasfigurazione decadente e caricaturale della penisola italiana in pieno ventennio berlusconiano, a Crapulonia, luogo che ha diversi caratteri in comune con le località irpine reduci dal terremoto, intrappolate in un eterno presente che oscilla tra il tramonto della civiltà contadina e le ruberie sugli appalti per la ricostruzione. Scenari immaginari, insomma, dove i verbi vengono sempre coniugati all’imperfetto o al passato remoto, ma che tuttavia non smettono mai di chiamarci in causa, mettendoci davanti agli occhi quella stessa attualissima realtà dalla quale ci troviamo irrimediabilmente circondati.

Così, pur trovando rifugio in ambienti e personaggi che non possono esistere se non nella fantasia dell’autore, la scrittura di Nando affronta a cuore duro le storture del mondo e i dolori dell’esistenza umana, finendo tuttavia per comporre un inno spensierato e gioioso alla vita stessa – e il finale festoso dell’ultimo racconto ne dà segno tangibile. Questo, però, solo dopo averla spogliata nuda e avercela sbattuta in faccia per quella che è: il groviglio, affannoso e inestricabile, delle storie di quanti hanno avuto la (s)fortuna di prendervi parte.

Il risultato finale è un vero e proprio caleidoscopio, capace di restituire la policromia complessiva della raccolta. Leggerla sarà un po’ come stendere al sole, uno per uno, tutti i panni di un bucato variopinto dopo averlo fatto scorrere in centrifuga. Oppure come addormentarsi e cominciare a sognare una sequela di cose rocambolesche. Tant’è che, alla fine, ogni racconto potrebbe sembrare, a modo suo, nient’altro che la trascrizione di un sogno folle e stralunato, tanto più vero quanto più si allontana dal ventaglio delle possibilità reali.

“E ora non venite a rompermi l’anima dicendo che questo non può avvenire, che è impossibile!” sbotta Nando ad un certo punto, con le righe d’inchiostro che paiono straripare e disegnare voli pindarici per aria. “È proprio il verificarsi di cose che normalmente riteniamo impossibili il sale della storia, ciò che le permette di svolgersi in libertà al di là delle previsioni degli uomini, ciò che ci permette di liberarci dal noioso tran tran quotidiano”.

E tanto basti, non aggiungo altro. Anche perché di cose ne ho già dette pure troppe.

Sempre che non giunga quel giorno di sole rovente in cui, con occhi luccicanti, sarò io a prendere Nando per il braccio e a dirgli, ridestandolo dal dormiveglia pomeridiano: “Domani dobbiamo partire!”

Agostino Arciuolo,
autunno 2012

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