Bagnoli, 8 settembre 1943

di Antonio Cella

Il lavoro che segue, è la sintesi stringata della conferenza tematica tenuta dal sottoscritto subito dopo la nascita dell’ Associazione Culturale “Palazzotenta39”,  che segnò l’inizio di una proficua attività culturale del sodalizio, la cui eco, con nostra grande sorpresa, ha valicato i ristretti confini dell’ Irpinia ed esteso le sue propaggini in più parti d’Europa e nella lontana America che fu di Philip Rhot,  De Lillo e dell’Incanto di Thomas Pynchon, grazie anche all’eclettismo e all’impegno di giovani volenterosi che hanno saputo racchiudere il senso della convivenza, dell’aggregazione, della convergenza, liberi da incrostazioni partitiche, in una dimensione democratica e popolare del complesso mondo di relazioni paurosamente nuove, ineffabili, che conduce in forma ecumenica, universale, verso un incremento non soltanto di genericità umana, quanto piuttosto di identità personale.


Alla caduta del fascismo (25 aprile 1943), il paese si raccolse in piazza. Non soltanto per festeggiare l’evento, ma anche per chiedersi cosa sarebbe successo nell’immediato futuro. Bagnoli, all’epoca, era popolato da circa quattromila abitanti. Il grande esodo verso le due Americhe e, più concretamente, verso i paesi dell’Europa Occidentale, denominato “Irpinia exodus, era di là da venire. Buona parte dell’Europa aveva subito la prepotenza di Hitler che per la realizzazione di un sogno folle fu artefice di un tributo di sangue senza precedenti: 71 milioni di morti. Stento a credere che nella Germania odierna, dopo che la stessa si era fatta promotrice di guerra, di distruzione e di morte possano  liberamente circolare i posteri di milioni di diseredati di varie etnie (ebrei, omosessuali, pacifisti, zingari, malati e dissidenti di varia natura) per crearsi in loco un futuro fatto di benessere sociale ed economico. Credo che non bastino mille anni di mea culpa per cancellare lo sgarro di un dittatore malefico.

Di fascisti, a Bagnoli, non ce n’erano poi tanti: fatta eccezione di quelli che avevano assunto il ruolo di “gerarchi”; quelli che si erano alternati nella carica di “segretari del Fascio di Combattimento”; i capi della Milizia e i responsabili delle organizzazioni giovanili come la Gioventù Italiana del Littorio, la stessa che organizzava i “saggi ginnici” nella nostra Piazza. Il resto, la quasi totalità direi, per un senso innato, lo stesso che caratterizza il pensiero di tanti Bagnolesi di oggi, pendeva da tutt’altra parte e non lesinava di rivolgere una dura critica al Fascismo, anche se a nessuno di essi, per ragioni politiche, fosse stato decretato l’ostracismo, la via del confino, come da prassi consolidata. E, d’altra parte, non risulta che i fascisti locali abbiano mai fatto ricorso alla denuncia, alla delazione, anzi, furono solidali con la popolazione nell’allontanare dal paese i funzionari della famigerata Organizzazione Antisemitica incaricata di rastrellare, in ossequio alle leggi razziali vigenti, ebrei bagnolesi da condurre nei campi di sterminio tedeschi, avendo accertato la loro presenza in moltissimi casati ebraici. Per fugare ogni dubbio, fu detto loro che tali casati avevano origini antiche e sconosciute, dissimulando così la realtà che aveva visto, nel secolo XIV, una forte colonia di migranti ebrei nel paese, fusasi nel tempo con i locali. Presenza, testimoniata dal capolavoro di architettura urbanistica incastonata nel nostro centro storico, chiamata Giudecca. Gli ebrei ricercati dall’Organizzazione Antisemita, portavano il nome di D’Aversa, Di Capua, Passaro, Russo, Nigro, Nicastro, Israelita, Buccino e tanti altri. L’ostilità maggiore dei Bagnolesi, era rivolta soprattutto verso i tutori dell’ordine e verso il gestore degli “ammassi obbligatori” delle derrate alimentari, che negli ultimi anni di guerra erano diventati insopportabili. I Bagnolesi, per poter sopravvivere durante e immediatamente dopo il periodo bellico, furono costretti a coltivare terreni incolti, pur non avendo una grande vocazione agricola dovuta alla mancanza di estensioni latifondistiche, ubicati in zone lontane miglia e miglia dal paese. C’era chi, lasciandosi tirare dalla coda dell’asino, dopo ore di cammino raggiungeva la piana di Ferentino (più nota come Irintina) situata tra Campo di Nusco e Lioni; chi, con altrettanto coraggio e forza d’animo, si portava in alta montagna, nella Piana di Sazzano, nella Valle di Ciccariello, al Filettone, a Valle Cupa e a Valle Piana per dissodare e conquistare quel pezzo di terreno libero che gli consentisse di raccogliere, sempreché la natura fosse benigna, quel poco di grano o di segale che fungesse da collante nella preparazione del pane, fatto di patate lesse e farina di castagne. Pezzo di terreno, beninteso, di ridottissime dimensioni ma di immensa utilità, che per l’uomo significava soprattutto “libertà dal servaggio ed esplosione di vita”.

La modesta produzione agricola, poca che fosse, era costantemente monitorata dagli uomini del Fascio. Gli stessi mulini, che all’epoca operavano nella zona di Caliendo e sulla Serra, all’ombra del castello dei Cavaniglia, erano meticolosamente piantonati da militi fascisti e sfarinavano solo per chi fosse munito di permesso. L’olio, il burro, il pane, il lardo, lo zucchero e tutto quanto veniva distribuito alla popolazione con tessera annonaria, erano oltremodo insufficienti per frenare i morsi della fame. Per poter eludere il controllo dei militi, le nostre madri si servivano dei “mortai” di pietra, usati per abbeverare le galline, per frantumare e quindi sfarinare il grano. Anche i rudimentali macinini da caffè vennero utilizzati per trasformare il grano in farina. E il caffè, all’epoca introvabile finanche nei grandi centri urbani, fu sostituito da miscele di orzo e legumi vari.

 L’ufficio “ammasso” era ubicato in Via Garibaldi, nei pressi della fontana del Gavitone. Era sempre aperto, anche di domenica, per la compilazione delle denunce da parte dei contadini. L’ufficio, incredibilmente, era fornito di tutti gli estratti catastali e non teneva minimamente conto della struttura del terreno. Per il catasto, i terreni erano tutti produttivi, anche se nella realtà gli stessi erano inutilizzabili, come i cespugliati, le radure e altre superfici al fine di consentire un maggiore ammasso di derrate: grano, patate, castagne e+ fagioli con i formaggi, lana e buona parte dei prodotti caserecci di origini animali, quali: prosciutti, lardo, salsicce. Produzione agricola piuttosto modesta. Non c’erano i fertilizzanti chimici di oggi e non era ancora stato dissodato l’Altopiano Laceno. Ma la cosa che faceva esasperare di più i nostri agricoltori, era l’imposizione da parte del menzionato Ufficio Ammasso di denunciare qualsiasi coltivazione di campagna: chiunque coltivasse un podere, per piccolo che fosse, doveva indicare come erano distribuite le colture. Né mancarono, al tal fine, le perquisizioni in loco e presso le abitazioni per accertare se i quantitativi di derrate trattenute fossero quelle giuste, senza tenere minimamente conto della composizione delle famiglie, il nucleo famigliare e le necessità dello stesso, che spesso superava il numero di dieci, quindici, venti persone (colpa dell’assenza della televisione). E, per non aver denunciato il giusto, molti contadini finirono in prigione, anche per vendetta da parte dei “Kapò” addetti alla sorveglianza che più volte erano stati presi di mira dalle massaie e coinvolti in furibonde liti e pesanti pestaggi.

Nello stesso periodo fu requisito anche il rame e il ferro per l’utilizzo a scopo bellico, e l’oro, per far fronte alle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Abissinia. Persino il maestoso monumento dei caduti, collocato sul lato destro, per chi guarda l’ingresso della chiesa di Santa Margherita, opera in bronzo di eccezionale valore artistico, necessario anch’esso alla causa bellica.

Erano anni di grande miseria per tutti. I bambini erano sottoalimentati. Ma non persero per questo il buon’umore tanto da canticchiare davanti alla loro scuola una preghiera, non convenzionale, che recitava: “Il Duce comanda, il Re ubbidisce, il popolo patisce. Patatè! Quando finisce?”. Gli avellinesi, invece, affidavano ai ritornelli popolari le rappresentazioni delle loro difficili condizioni di vita: “Con Mussolini si mangiava ogni mattina; c’o americani una volta alla settimana; coi canadesi una volta al mese. E se non fosse pe’ mele e legnisante, stessimo tutti quanti a o’ campusanto”. Gli abitanti del Capoluogo, vissero ancora più drammaticamente il periodo bellico. Erano, per ovvi motivi, alle prese con i problemi di emergenza quotidiana. Loro non avevano, come i Bagnolesi, abbondanza di castagne e patate per sfamarsi, e il loro pane o era quello che passava la tessera annonaria (pagnotte nerastre ed amare, composte di lupini e grano turco avariato) a quattro lire al chilo, o quello che si acquistava al mercato nero, a cento lire al chilo.

Fu in questo periodo che venne dato l’assalto alla difesa erbivora di Laceno: il dissodamento fu inevitabile. Non vi furono leggi e prescrizioni forestali che tenessero. I dissodanti, non solo contadini, ma gente di tutte le categorie e condizioni sociali, si organizzarono per bene per sfuggire ai quotidiani interventi della milizia forestale, che tutti i giorni vi giungeva a cavallo, che nulla poteva fare contro chi aveva famiglia da sfamare. Era, la loro, una impotenza voluta, fittizia. Anche i forestali avevano mogli e figli cui pensare, e  il magro stipendio era piuttosto insufficiente per garantire loro il necessario in tempi di vacche magre. Il divieto di dissodamento scaturiva da severe leggi a protezione delle sorgenti del Sele di cui Laceno è parte integrante del bacino imbrifero di quelle acque.

Negli anni che seguirono, nel 1947 per la precisione, il Sindaco pro tempore di Bagnoli, insegnante Rodolfo Cione, con un telegramma datato 14 marzo del menzionato anno, inviato al Ministero dell’Interno, tenta senza successo di ottenere una sorta di legale autorizzazione all’occupazione del pianoro Laceno da parte dei disoccupati, forte dell’esperienza di alcuni comuni dell’Alta Irpinia dove, grazie al disposto del decreto Gullo, che autorizzava il passaggio dei terreni incolti, coltivati male dalla grande proprietà pubblica e privata, nelle mani dei contadini nullatenenti. Il Prefetto di Avellino, infatti, fu l’artefice della bocciatura dell’opera di contadinizzazione del Laceno con apposita relazione particolareggiata precisando che “La manodopera locale a Bagnoli è assorbita in gran parte dalle utilizzazioni boschive e dalla pastorizia…e che la coltura agraria rappresenta una forma di economia sussidiaria e integrativa delle altre”, e soprattutto nell’opera di persuasione intrapresa dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste e dall’Ente Autonomo dell’Acquedotto Pugliese sulla necessità della restituzione delle zone dissodate all’antica coltura erbivora,  “al fine di evitare danni all’integrità della sistemazione idraulica dell’Alto bacino del Sele”.

Le giornate calde che portarono la guerra anche a Bagnoli vennero dopo l’otto settembre 1943.

Dopo che i tedeschi lasciarono il paese, arrivò il grosso dei mezzi blindati alleati il cui comando si diresse verso il Municipio, per attingere notizie logistiche sul territorio. Immediatamente, Adelchi Lo Re, capitano dei carabinieri responsabile della stazione del paese, avuta notizia dell’arrivo degli americani, si accinse a raggiungere il Municipio per presentarsi agli alleati (ottobre 1943). Ma, all’altezza della fontana del Gavitone, l’Ufficiale dell’Arma, incontrò una folla di curiosi che ritornava in piazza dopo che gli americani e gli inglesi erano appena andati via. La folla, in piena effervescenza per la ritrovata libertà, in preda alla rabbia per l’inaspettato incontro e forse anche ad una forma di delirio collettivo causato dalla presenza del sunnominato che, nel periodo del coprifuoco, costringeva a munirsi di permesso chiunque dovesse recarsi in campagna e in montagna per ragioni di lavoro, prese il malcapitato e lo ridusse a mal partito. Stessa sorte toccò al segretario comunale per il suo notorio zelo fascista, alle guardie forestali e ai carabinieri rimasti in caserma che subirono un disonorevole disarmo, più tardi ricomposto con la restituzione delle armi e l’arresto di quasi tutti i rivoltosi. Constatato tanto, la popolazione si ribellò dando vita ad una imponente manifestazione con minaccia di assalire il carcere. Fu il buon senso proprio del buon padre di famiglia del Procuratore del Re ad avere la meglio il quale, legando il motivo dell’insurrezione alle angherie e ai soprusi subiti dalla popolazione nel periodo fascista, dispose la immediata scarcerazione dei rivoltosi. Esponenti di rilievo della sommossa furono Pierino Cione e Tommaso Aulisa. Quest’ultimo, fino ai primi giorni di marzo del ’44, per volontà dei rivoltosi, resse anche la carica di commissario straordinario.

Dopo il mese di settembre 1943, a Bagnoli si svilupparono concentrazioni antifasciste di sinistra, quali: il Partito d’Azione e il Partito Socialista (Psiup) che, sull’esempio delle iniziative in atto a Napoli, ad Avellino, a Salerno e in altre città italiane, cominciarono a darsi un minimo di organizzazione aderendo al Comitato Provinciale del Fronte Nazionale di Liberazione. I partiti locali che vi presero parte furono: il Partito Democratico Cristiano, rappresentato da Salvatore Vivolo; il Partito Socialista Italiano, rappresentato dall’irriducibile Tommaso Aulisa; il Partito d’Azione, rappresentato da Raffaele Meloro; il Partito Comunista, rappresentato da Michele Rullo e il Partito Liberale, rappresentato da Federico Preziuso. Il Presidente facente funzioni dei partiti aderenti al Comitato di cui sopra fu Salvatore Ciletti. La proiezione politica del CNL trova a Bagnoli un referente sociale e una tradizione democratica che lo alimenta e lo controlla. Il suo peso è cospicuo se si pensa che più delle volte il governo degli Alleati non può non tener conto delle decisioni che il Comitato esprime come, ad esempio, la nomina di alcuni Sindaci del paese nel periodo 1944-1946 (durante i primi anni del dopoguerra le amministrazioni comunali venivano nominate con decreto del prefetto, e non per libere elezioni). Esse erano costituite dal Sindaco e dalla Giunta Municipale, formata da quattro assessori effettivi e due supplenti.

La prima di queste amministrazioni fu nominata il 27 giugno 1944 ed ebbe come sindaco Nicola Frasca del Partito d’Azione, che restò in carica fino al 26 ottobre 1945. La seconda, fu capeggiata da Ermenegildo Parenti della Democrazia Cristiana, che restò in carica fino al 6 maggio 1946; la terza, di nomina prefettizia su designazione del CNL fu presieduta da Belisario Bucci, e durò fino al 4 novembre del 1946, quando furono indetti i comizi elettorali che formarono la prima amministrazione elettiva del dopoguerra. Tra gli assessori della seconda amministrazione, oltre a Tommaso Aulisa, Aniello Meloro e Aniello Russo, ci fu anche Aniello Di Capua, fondatore della Sezione del Partito Comunista di Bagnoli (coadiuvato da alcuni confinati politici toscani), più noto come “Tattà”, anarchico comunista fortemente ideologizzato, capace di andare a piedi a Mosca se fosse necessario per il bene del partito. Mi è stato raccontato che lo stesso si inorgogliva quando si parlava del suo arresto avvenuto a Chicago il 3 agosto 1927, durante una manifestazione di protesta per la condanna alla sedia elettrica di Sacco e Vanzetti, operai italiani, trovatisi al centro di un processo politico svoltosi al culmine di un’aspra campagna repressiva contro militanti della sinistra. Personaggio singolare, di natura fortemente carismatico.

Con la “liberazione” della Provincia di Avellino, inizia una lunga e profonda gestazione di un processo destinato ad allineare la topografia locale dei partiti a quella nazionale, con la introduzione di equilibri e di rapporti similari. L’adeguamento, però, fu molto lento, da ascrivere sicuramente a fattori di organizzazione dei partiti nella provincia, per l’assenza di una forza dirigente capace di dare ad essi la giusta spinta, così come venne svolto dalla Resistenza nel Nord Italia. Per rendersi conto di quali e quante difficoltà si frapposero al raggiungimento di detto assestamento basterebbe il dato sommario delle elezioni del 2 giugno 1946: i tre partiti di massa DC-PSI-PSIUP che a livello nazionale apportarono l’84% dei suffragi per la Costituente, a stento raggiunsero nella nostra provincia il 42,4%. E il dato fu molto discordante non solo per la netta prevalenza dei consensi a favore della Monarchia ma ancor più per il non avvenuto superamento di un sistema ancora dominato da vecchi rapporti. La provincia era suggestionata da orientamenti che non trovavano più riscontri in altre parti del paese, visibilmente inattuali, peraltro, e ancora improntati a rapporti di tipo fiduciario, di sudditanza personale e di natura clientelare che il prefetto di Avellino, Foti, definì: “Una lotta notabilare di uomini e non di idee”. Alcuni paesi, tuttavia, ottennero un notevolissimo risultato a favore della Repubblica. A Bagnoli risultò maggioritaria, ottenendo il 37,3 grazie alla visione progressista di giovani intellettuali presenti in paese e alla spinta propulsiva data in direzione della repubblica democratica da porre alla guida della nostra nazione.

Ritornando ai rapporti di sudditanza appena accennati, appare utile precisare che buona parte degli stessi vanno ascritti anche allo stato di disgregazione e di arretratezza in cui viveva la provincia: l’analfabetismo toccava punte altissime; mancava il riferimento politico e culturale; poche erano le linee ferroviarie e, per giunta, mal funzionanti (la linea Rocchetta S.Antonio entrò in funzione soltanto l’11 ottobre del 1945 e arrivava fino a Montella); impervie le strade; scarsi i mezzi pubblici di trasporto, quasi inesistenti quelli privati. L’informazione era affidata alla stampa quotidiana e periodica (Il Roma, il Mattino e il Corriere si fusero nel quotidiano “Risorgimento”, formato di un solo foglio, che dava notizie dei fronti di guerra e riferiva assai poco delle forze politiche scese in campo nelle regioni liberate) che giungeva in misura ridottissima soltanto in qualche comune e, abitualmente, con molto ritardo. Oppure alle notizie-radio, con un numero di ricevitori bassissimo e privilegio di poche famiglie. Nel rione Casale, dove abitavo, c’era un solo apparecchio: quello del mio defunto amico Paolo Cucciniello.

E, per chiudere, certo di avervi fornito un modesto attendibile spaccato della vita politica e sociale di Bagnoli del dopoguerra, voglio citare un ultimo episodio riportato più volte in qualche mio libro: l’attentato del luglio 1948 a Palmiro Togliatti da parte di Antonio Pallante, figlio di genitore bagnolese. In quella occasione, i comunisti del paese tentarono per più giorni con intenti minacciosi di manifestare sotto le abitazioni degli zii paterni. Fortunatamente, le forze dell’ordine e l’intervento mediatore di qualche notabile riuscirono ad evitare il peggio. Nel resto d’Italia, nelle zone rosse più intransigenti, si verificarono episodi delittuosi. Quanto a Bagnoli, solo dopo molti mesi le cose tornarono allo status quo ante che consentì agli “assediati” di ritornare a respirare, che, per il vincolo biologico, si videro coinvolti nell’atto scellerato del congiunto, riabilitato successivamente dallo stesso Togliatti.

Antonio Cella

(da Fuori dalla Rete, Settembre 2019, anno XIII, n. 4)

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