Un affare di famiglia

di Alejandro Di Giovanni

Per convenzione, convinzione e convenienza, la famiglia è diventato lo strumento attraverso il quale il potere ecclesiastico e quello politico hanno perpetuato per millenni le loro rispettive egemonie sulle società che si sono nel tempo susseguite. La famiglia, con tutto il suo portato di inviolabile sacralità, è al contempo inclusiva ed esclusiva, e in nome di questa sua duplice vocazione, ha saputo servire al meglio le strutture messe in piedi dal potere che ha caricato su questa dimensione l’immaginario stesso dell’umanità intera. La famiglia naturale, tradizionale, “normale”: padre – madre – figli, patria, etnia (razza per alcuni), cultura, religione; appartenere a qualcosa, fare di tutto per quel qualcosa e di quel qualcosa il tutto, difendere quel qualcosa in ogni caso e ad ogni costo, anche a discapito di altre famiglie. Questa struttura ha portato ad una visione chiusa, competitiva ed egoistica del vivere tra gli uomini, un vivere che in pratica è un vivere in branco con discriminanti aggiuntive (oltre a quelle della discendenza e della specie). Su questa istituzione oggi si basa l’acclamata ascesa dei valori propugnati dalla destra conservatrice sovranista, del “noi contro loro”, del “prima noi”. Sbagliavano, ovviamente, i grillini quando davano per spacciate le due visioni antagoniste del mondo, ossia quella della destra e quella della sinistra: il mondo è sempre stato diviso tra chi mette prima se stesso davanti agli altri, e chi mette gli altri sul piano di se stesso. Destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre, e anche se oggi è la prima a prevalere nettamente, la seconda non morirà mai: moriranno solo i dissimulatori, i qualunquisti e gli opportunisti senza identità (i 5stelle appunto). Allora oggi è la visione divisiva a trionfare, di un mondo barricato in confini nazionali, di una società piramidale stratificata per etnia e nazionalità, religione e orientamenti sessuali: si pone dunque la necessità di una riforma radicale della società politica. Il concetto convenzionale di famiglia, socialmente stipulato e determinato dall’egemonia culturale di una società, ha determinato nel pensiero occidentale meno progressista una visione tradizionale di composizione: uomo padre, donna madre, prole. Per questa famiglia una persona deve vivere e morire, solo per questa, e per la sua patria, la sua “razza”, la sua religione, la sua cultura: egli appartiene a più famiglie che vanno affermate e difese, famiglie che non contemplano contaminazioni, ma solo una pura e intatta conservazione nel tempo. L’uomo così, appartenendo ad una patria, ad una famiglia, ad una religione, ad una etnia, aderisce incondizionatamente ad una affermazione discendente di valori predefiniti e preconfezionati che fa propri, che rende vitali, essenziali e indispensabili per definire se stesso: egli è in quanto appartenente a queste famiglie, questi valori; egli è, e contemporaneamente non è, non ha scelto, non ha fatto, non è stato. E’ come quei soldati arruolati che, senza scegliere e decidere, devono portare avanti le battaglie di una affermazione quotidiana dei valori delle diverse famiglie, una guerra tra famiglie dove le une cercano di prevaricare e prevalere sulle altre, di affermarsi con la distruzione delle altre, ognuna bramosa di un ingannevole e illusorio “Trono di spade” da rincorrere, quando solamente l’unione armonica di tutte e tutti ha portato e porterà all’ordine idealmente desiderabile.  E’ stato così per le guerre di dominio delle religioni, è stato così per quelle delle nazioni e delle rispettive culture che si promuovevano, dei modelli che cercavano asserzione, ed è tutto ciò ancora oggi, con rinvigorita energia e slancio. Così è per le famiglie, la mia prima, le altre dopo: da qui credo parta il germe di ogni chiusura verso l’altro, di difesa e offesa verso il diverso (uno non dei nostri). Appartengo, difendo e affermo, dunque sono. Credo che sia questo il modo invece per non essere, dato che ci avevano già detto chi essere e come essere, e di chi. Essere non è appartenere, perché appartenere non è essere liberi, perché appartenere esclude sempre, perché appartenere è scontrarsi con chi non appartiene. Non sto con nessuno e con tutti, dunque sono e posso essere tutto e tutti. Non ho una famiglia, appartengo a tutte le famiglie, non ho una nazione, appartengo a tutte le nazioni, non ho una religione, appartengo a tutte le religioni, non ho una cultura, appartengo a tutte le culture, non ho una “razza”, appartengo a tutte le “razze”. Essere di sinistra, nel profondo e autentico modo di esserlo, è non stare con nessuno per stare con tutti, è non essere nessuno per essere tutti, è messa in opera pratica di uguaglianza tra le “famiglie”. Famiglia è anche chi si decide di amare, e solo a noi dovrebbe essere concesso di scegliere con chi, quando, dove, perché. Di fronte al dominio dei valori della conservazione della specie occidentale italica e di tutto il suo portato messo in piedi con successo dalla destra nazional-conservatrice sovranista, io scelgo idealmente di non essere per essere, di non avere famiglia alcuna per portare avanti l’unica alla quale davvero sento di appartenere: quella dell’uomo, quella del mondo intero.

Alejandro Di Giovanni

(Pubblicato il 23.6.2019 sul giornale della Giovane Sinistra “L’Adelante”)

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