A Jean

di Erminia Capone

-Jean prendi un ombrellone e due lettini! – sentenzia perentorio il proprietario. Jean esegue senza indugio, come un soldato. Lo guardo: fisico atletico, agile, snello, una folta capigliatura raccolta in decine di trecce sottili che gli adornano il viso, penzolando. Gli abbozzo un sorriso, ringraziandolo ed augurandogli una buona giornata; lui ricambia gentilmente, svelto, con fare poco loquace. Penso: non conoscerà ancora bene la lingua. Trascorre un’oretta e, d’improvviso, lo noto appoggiato sul bordo del lettino, quasi in procinto di scattare, accanto a me. Fissa il mare Jean. Ha lo sguardo perso, increspato tra quelle onde, attanagliato chissà da quanti e quali pensieri. Lo osservo sottecchi, mentre quelle braci ardenti di malinconia, trafiggono l’orizzonte. Attende-vigile-che lo chiamino per svolgere la sua mansione. Mi alzo per prendere la crema solare, cerco nuovamente di abbozzare un sorriso-cosa che, raramente, ardisco fare senza pudore, ma lui sembra non recepire, intento com’è a scrutare il mare. Arriva l’ora di pranzo, ma non per lui. Dopo un paio d’ore lo noto nuovamente accanto, seduto, sul chi va là, impaurito, mentre trangugia un po’ di pasta racimolata in un triste piatto di plastica, sotto l’ombrellone già aperto, non per lui, al riparo dai raggi del meriggio violento. Non è a proprio agio, sembra temere di arrecare fastidio ai presenti.

Ed io, con un pungolo in gola, inizio a percepirmi fuori luogo, a sentirmi in colpa. In colpa perché, guardando lo stesso mare, io posso sognare ad occhi aperti, immaginare tramonti ed albe forieri di un futuro roseo, futuro a lui negato. In colpa perché so. So di quegli occhi fulgidi, come vetri infranti di cristalli di vita dilacerata. So di quei barconi, stracolmi di tanti Jean, che sfidano impavidi ed inorriditi le intemperie del mare, per me porto franco, evocatore di magia, lo stesso che assume sembianze di un mostro multiforme che fagocita vite, inghiottendole tra i suoi tentacoli assassini. So di famiglie spezzate, distrutte, irreparabilmente divise. So di migliaia di occhi impauriti che hanno sfidato Nettuno per approdare su coste inimicali, tra genti oramai disavvezze all’ospitalità, nemiche, che hanno divelto le loro radici, immemori delle loro origini. Mi perdo anch’io, tra mille pensieri, inforco gli occhiali per celare le lacrime che, improvvisamente, mi inumidiscono gli occhi mentre guardo furtivamente quel ragazzo, di neanche vent’anni, guadagnarsi onestamente un piatto di pasta, in un maledetto, misero piatto di plastica. Dopo poco vado al bar del chiosco, per un caffè. Lì sento l’altro “collega” di Jean riferire alla proprietaria che, pur avendolo chiamato più volte, Jean non ha voluto pranzare con loro, all’ombra, seduto tra loro al tavolo. -Si vergogna-le dice sorridendo, quasi in dovere di fornire una spiegazione per quel gesto che rischia di essere offensivo. -E’ nuovo-, rincara, -ma si abituerà presto-conclude saggiamente, lui, più avvezzo e navigato. Sì, forse si abituerà, penso io. Dovrà abituarsi all’ostilità, al cemento nel cuore, agli ordini e ai dinieghi. Dovrà abituarsi alle facce dure, al lavoro precario, sottopagato, nero come la sua pelle arsa. Al freddo che impietrisce gli arti nelle notti di gennaio, arrabattandosi con chissà quale lavoro per trovare, forse, riparo in una misera alcova, ricavata da lamiere, come Soumaila. Dovrà abituarsi ai giorni di magra, di fame, agli attacchi ineluttabili di nostalgia. Sempre guardando quel mare, che gli ha tolto troppo, forse tutto, ma non ancora la dignità, sperando un giorno, forse, di ripercorrerlo al contrario, col vento in poppa e colmo di speranza. Intanto la giornata volge al termine. Jean ritira i lettini e sradica gli ombrelloni con fare meticoloso e rapido, a volte si gira, in preda al richiamo del mare…

Ciao Jean,

avrei voluto abbracciarti, chiederti se studi, se i tuoi genitori sono vivi, se c’è qualche anima che ti aspetta al calar della sera, quando torni affranto e stremato dalla fatica. Avrei voluto chiederti se hai un dottore, cosa pensi di noi, di me, sdraiata sotto al sole per un’intera giornata, mentre tu arranchi tra i frammenti aguzzi della tua vita. Mi avvicino all’uscita, pensando che domani, Jean, rifarai le stesse cose, compirai le medesime azioni tra decine di bagnanti, sconosciuti, che si dimenano smaniosi per accaparrarsi il loro posto al sole e tu, solo, a soddisfare i loro bisogni noiosi. Tra quella massa inconsistente, continuerai a scrutare il mare, trapassandola, quasi fino a lambire con le dita la tua disperata terra.

Otranto, Estate 2018

Erminia CAPONE

(da Fuori dalla Rete, Settembre 2018, anno XII, n. 5)

fonte Fuori dalla Rete, Settembre 2018, anno XII, n. 5
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