Ad Aniello Russo un simbolico e duraturo omaggio

di Paolo Saggese

Proporre un profilo breve su Aniello Russo (scomparso lo scorso 29 maggio), studioso di antropologia e del dialetto irpino, scrittore e poeta in dialetto, significa compiere quasi un lavoro di inutile tautologia dal momento che buona parte della sua produzione critica e letteraria è nota al pubblico degli specialisti e dei cultori. Vorrei in questa sede, rivolgendomi ai suoi compaesani, che ha tanto amato, richiamare alla memoria una raccolta di poesie in dialetto bagnolese corposa e significativa, dal titolo “La macriàta, cunti r’ cristiàni e dd’animàli”, a cura di Diana Russo, International Printing Srl – Editore, Avellino, 2010, che ho incluso nel mio secondo volume di “Storia della poesia irpina del Novecento” (Delta 3 edizioni, 2013).

Nelle pagine introduttive firmate da Diana Russo si possono cogliere gli elementi essenziali di questa produzione letteraria: innanzitutto, un aspetto rilevante di queste 25 poesie – tutte accompagnate da una “traduzione artistica” a fronte – è l’elemento satirico, richiamato già nel titolo, che rimanda al canto di vilipendio intonato da gruppi di giovani contro una ragazza, che aveva compiuto la classica “fuitina”. Del resto, acutamente la stessa Diana Russo sottolinea anche quanto importante sia un altro elemento dell’opera, vale a dire il carattere affabulatorio di questi compimenti, non a caso accompagnati dal sottotitolo “cunti”, che rinvia all’amato Gian Battista Basile, “perché le composizioni in versi (la metrica scelta è estremamente narrativa, con i suoi endecasillabi cui succede raramente qualche settenario e occasionalmente un quinario, come pause funzionali) hanno la connotazione delle storielle popolari raccontate nei contesti narrativi canonici, alla presenza della gente del paese” (così Diana Russo a p. 3).

Inoltre, lo scrittore non si pone nei confronti del popolo contadino con gli occhi dell’intellettuale distaccato, “bensì lo racconta, dopo averlo interiorizzato nell’infanzia e nella fanciullezza, dopo che l’ha vissuto (e lo vive ancora) dall’interno” (p. 4).

Anche l’ultima sezione, quella delle favole con animali che sostituiscono il mondo degli uomini, è raccontata con l’ironia propria di Aniello Russo, che ha voluto rappresentare una civiltà contadina ormai frantumata in tutta la sua complessità, ma anche in tutta la sua drammaticità. Non vi sono, ovviamente, moti di tipo nostalgico, ma una constatazione del dolore, anche della umanità, della violenza talvolta disumana, di un mondo arcaico e primordiale. E proprio in questa complessità consiste l’interesse e dunque l’importanza della raccolta.

Si parte da “La macriàta” e si passa a “La mala nnumenàta” (“La calunnia”), in cui le comari del paese raccontano di vere o presunte infedeltà reciproche. Il tema sessuale, in un mondo al contempo represso ma anche “naturale” e per certi versi pre-cristiano, domina in molte di queste “macriàte”; è presente in “È rrussu lu lenzùlu r’ la zita” (“È rosso il lenzuolo della sposa!”), dove si racconta del costume di esporre il lenzuolo della prima notte a testimonianza della verginità della sposa, vi si allude in “Za’ Cuncetta”, e poi ancora nei componimenti 8, 10, 11, 12, 13. L’amore è spesso violenza, morte, dolore, peccato nel senso terreno e non cristiano, la donna è oggetto posseduto con violenza e con animalità. Quando è sentimento delicato, non meno finisce in tragedia. Sono quasi sempre storie realmente accadute, raccolte da Aniello Russo nelle sue ricerche sul campo compiute negli ultimi quarant’anni, come quella de “Lu murtòriu r’ tatònu” (“Il funerale del nonno”), in cui il racconto delle esequie del vecchio padre diviene monito per il figlio ingrato. Quest’ultimo, infatti, aveva avvolto il padre in un vecchio lenzuolo e lo portava di notte a buttare in un fosso insieme al nipote. Durante quel “funerale”, ecco il monito rivolto al figlio ingrato: il nipote toglie il vecchio lenzuolo dal cadavere del nonno, perché vorrà utilizzarlo alla morte del padre! Ed ecco la conclusione efficacemente ironica di Russo: “A ssente ssa parlata, lu garzòne / se porta a ccasa n’ata vota a tata. / Li feci nu murtoriu / – nu patru era muortu, no nu canu! – / c’ancora oje ne cònta meraviglie, / p’ quant’è gruossu, lu casàlu sanu” (“Il garzone, sentendo il suo figliolo, / riporta a casa il vecchio. / Gli fece un funerale / – un padre era morto, e non un cane! – / che ancora con stupore se ne parla, / grande com’è, in tutto il casale”).

E poi c’è la miseria, atavica, la fame, che è vissuta come un supplizio di cui non ci si può liberare. Del resto, i contadini del Sud hanno spesso impersonato pienamente il supplizio di Tantalo, mai sazi di carne e di vino. Ed ecco gli stenti di una vita, che vediamo testimoniati nei poeti meridionalisti d’Irpinia e del Sud – ostracizzati dalla storia nazionale – nelle parole semplici di una donna ormai vecchia, che racconta la sua infanzia di fatica e di stenti indicibili, da schiavi moderni (“Semp’a prim’ora cammenàva scàveza”, “Andavo scalza all’alba”): “Mettìa re granurìniu e re pàtane; / mamma zappava, e iu appriessu a edda: / era fattu re ssérchie int’a ste mmanu! / I’ cammenava scàveza a prim’ora, / li pieru int’a li zanghi o la ilàma. / Ddu cacasìccu a mme ogni gghjùrnata / Nun se pozza veré saziu r’ panu!) / me la pahàva a ccu cinquanta lire. / Nu’ mme putìa fa’ cose re scarpe: / cu sta miseria tannu t’accattavi / miezzu chilu r’ pasta, e forse mancu!” (“Seminavo il granturco e le patate; / mamma zappava, e io dietro a lei, / le mani deturpate dalle piaghe! / Andavo scalza all’alba, e i piedi nudi / ponevo nella brina e dentro al fango. / Quello spilorcio per una giornata / (Non si senta giammai sazio di pane!) / mi compensava con cinquanta lire. / Come potevo mai aver le scarpe, / se con quella miseria ti compravi / mezzo chilo di pasta, e forse neanche!”).

E poi c’è l’invettiva politica, presente nel ventesimo componimento (“Tu hé pensàtu sulu a l’uortu tua”, “Tu hai pensato solo all’orto tuo!”), in cui si riconoscono motivi comuni ad altri poeti bagnolesi quali Tommaso Aulisa, egli stesso autore di versi dialettali, e quindi Ferdinando Rogata e Luciano Arciuolo, tutti rappresentanti di una tradizione intellettuale di sinistra, che ha caratterizzato fortemente la storia di quella comunità e di parte dell’Alta Irpinia.

Attraverso quest’opera, del resto, Aniello Russo completa un percorso intellettuale iniziato tanti anni fa, quando da pioniere riscopriva e “registrava” storie, aneddoti, parole e lingue di un mondo ormai scomparso quasi definitivamente. L’importanza di questo lavoro forse non è stato ancora completamente compreso e tuttavia acquista solidità di anno in anno. Questi libri sono scritti più per il futuro che per il presente, ed è con questa convinzione, che Aniello Russo ha svolto la sua feconda e importante ricerca. Per i bagnolesi la sua vita e la sua ricerca sono state un grande dono. Vogliate ricordarlo tra le glorie della “gentilissima” Bagnoli, attraverso un simbolico, ma duraturo omaggio.

Paolo Saggese

(da Fuori dalla Rete, Giugno 2022, anno XVI, n. 3)

 

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