C’è un po’ di Unabomber in ognuno di noi

di Martin Di Lucia

Il 3 aprile 1996 in uno sperduto capanno del Montana veniva arrestato Ted Kaczynski, passato alla storia come Unabomber.

Si chiudeva così la più lunga caccia all’uomo d’America.

Dal 1978 al giorno della sua cattura, Unabomber seminò il terrore in tutti gli Stati Uniti, compiendo sedici attentati dinamitardi, causando tre morti e ventitré feriti con gravi mutilazioni.

Nell’organizzazione dei suoi delitti mai un errore, una leggerezza, un dettaglio che potesse tradirlo. La tecnica sempre la stessa: un pacco bomba artigianale. Un uomo solo in guerra contro il mondo, animato da un odio profondo, incontenibile, verso la tecnologia, ossessionato dal progresso, dal predominio delle macchine, dallo svuotamento del ruolo dell’individuo. Un odio inquietante e devastante tanto da trasformarlo in uno spietato assassino.

Essendo gli obiettivi di Unabomber principalmente il mondo accademico e quello delle compagnie aeree, l’FBI coniò il nome in codice UN-A-BOMB (“UN” per università, “A” per Aerei, e quindi Bomba).

In realtà, gli obiettivi e le vittime di Unabomber sono stati negli anni diversi: scienziati, ricercatori, informatici, alti funzionari, tutte figure legate da un comune denominatore: l’impiego nello sviluppo delle nuove tecnologie e l’indifferenza verso i problemi ecologici.

Negli anni di caccia a Unabomber, criminologi e cacciatori di serial killer fecero le più disparate ipotesi sul profilo e la provenienza di questo solitario eco-terrorista, ma solo in seguito al suo arresto si scoprì della sua incredibile storia personale.

Ted

Ted era nato a Chicago nel 1942 da una famiglia di immigrati polacchi. A sei anni, un test di intelligenza lo indicò come bambino prodigio. A 16 frequentava già Harvard, ottenendo a 20 anni la laurea e a 25 il dottorato in Matematica. La sua tesi fu anche premiata con un riconoscimento nazionale, ottenendo una cattedra nella prestigiosissima Università di Berkeley, California. Ma inspiegabilmente due anni dopo, con una lettera di appena tre righe, rassegnò le dimissioni, senza un apparente motivo.

Con un prestito ottenuto dalla madre e dal fratello, Ted acquistò un terreno di sei ettari nei boschi del Montana; una capanna di pochi metri quadrati costruita da lui stesso diventò il suo rifugio; senza luce, ne acqua corrente, rifiutando ogni compromesso con il progresso e le nuove tecnologie.

Qui, in queste condizioni nacque Unabomber.
Chiuso nel suo isolamento perfetto organizzò, in uno stato di “incontrollata follia”, i suoi attentati, diventando un incubo per gli Stati Uniti fino al 1995, quando iniziò a commettere i primi fatali errori. Forse esasperato dalla solitudine, lanciò un appello preciso: la pubblicazione di un suo saggio sui maggiori quotidiani nazionali in cambio della promessa di interrompere la sua serie di attentati.

Così, il 19 settembre 1995, in un inserto speciale del Washington Post apparvero i 232 paragrafi de “La Società industriale e il suo futuro”.

La speranza segreta dell’FBI era che qualcuno, leggendo il ‘Manifesto’ di Unabomber potesse riconoscerne lo stile, cogliere qualche segnale, notare una somiglianza con altri scritti, insomma dare qualche suggerimento che portasse alla sua cattura.

E così fu. La fidanzata del fratello minore di Kaczynski, David, ebbe la spiacevole sensazione di riconoscere nel ‘Manifesto” lo stile e le idee di alcuni appunti di Ted. Decise quindi di informare un avvocato e, contattata l’FBI, si procedette al suo arresto. Durante il processo rifiutò fermamente la linea dei suoi avvocati di richiedere l’infermità mentale, a voler escludere ogni chance di “rieducazione”, tale era il dissidio che sentiva tra lui e il modello dominante.

Fu condannato a tre ergastoli con esclusione della libertà condizionata.

La Società industriale e il suo futuro

Il “Manifesto” di Unabomber è un testo complesso, articolato, corredato da numerose pagine di note.
Un saggio che tradisce la formazione accademica dell’autore e sul quale la critica e gli esperti si sono presto divisi. Per molti il ‘Manifesto’ è niente più che una rielaborazione di vecchie idee, frutto della follia di un assassino. Per altri, giornalisti e studiosi soprattutto europei, il testo non può essere considerato soltanto questo.

Il “Manifesto” di Unabomber supera ogni tentativo di minimizzazione o censura, e agli albori di Internet nascono numerosi forum per discuterne idee e limiti, a dimostrazione che in molti comprendevano o condividevano in parte le idee di Unabomber: “le tecnologie come portatrici di destabilizzazione sociale, di disgregazione economica e di distruzione dell’ambiente”.

Unabomber non si limita a contestare il mondo in cui viviamo, ma lo rifiuta totalmente, senza appello. Ammette che è ormai impossibile riformare il sistema industriale e tecnologico, e soprattutto che “la restrizione delle libertà individuali è un fenomeno inevitabile nella società industriale”.

Il suo messaggio è perentorio: le nuove tecnologie stanno distruggendo l’uomo. “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana” cita nel primo paragrafo.

Esse hanno “incrementato a dismisura l’aspettativa di vita di coloro che vivono nei paesi sviluppati, ma ne hanno allo stesso tempo destabilizzato la società, rendendone la vita insignificante, assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni, diffuso sofferenze psicologiche e fisiche, inflitto danni notevoli al mondo naturale”.

Le critiche maggiori le rivolge alla casta dei baroni universitari, dei docenti e dei ricercatori al servizio delle grandi multinazionali, degli stimati professionisti a libro paga dei dipartimenti della difesa. La sua critica non risparmia gli scienziati impegnati negli studi di biotecnologia, autori di inquietanti manipolazioni genetiche (siamo al tempo delle prime clonazioni di animali), nuovi guru abili nel promettere una vita priva di sofferenze e malattie.

Durissime sono anche le osservazioni rivolte ai liberali americani di cui fa parte la maggioranza degli intellettuali, pur non essendoci un dichiarato schieramento con le ideologie di destra. Il suo è per quanto possibile un messaggio a-politico.

“La sinistra moderna, falsa e cinica, è una massa di uomini apparentemente motivati da nobili principi morali ma in realtà sedotti dal potere”.

Molti liberali, secondo Unabomber, sostengono i diritti delle minoranze, ma non appartengono ai gruppi minoritari che difendono.

Suscettibili all’uso di termini “politicamente scorretti” non sono gli abitanti del ghetto nero, l’immigrato asiatico, le donne violentate o le persone disabili, ma una minoranza di attivisti, molti dei quali non appartengono a nessun gruppo oppresso, ma provengono dalle classi privilegiate della società.

“La correttezza politica ha la sua roccaforte tra persone con un impiego sicuro, buone retribuzioni e, per la maggior parte, eterosessuali, bianchi e provenienti da famiglie di classe media”.

Sovra-socializzazione

Il filo conduttore delle sue argomentazioni è la “sovra-socializzazione”, termine che gli psicologi usano per designare il processo con il quale i bambini vengono “addestrati” a pensare e ad agire come la società richiede, e quindi la conformazione al modello di comportamento deciso da chi detiene il potere. Egli infatti sostiene che la crudeltà peggiore che gli esseri umani si infliggono l’un l’altro è la sovra-socializzazione.
Paradossalmente anche coloro i quali rivestono ruoli di alto livello nella società hanno smarrito il potere essenziale, ovvero quello del controllo sulla propria vita.

Inoltre aggiunge: “Il sistema per funzionare ha bisogno di scienziati, matematici, ingegneri, e vengono esercitate pressioni sui bambini perché eccellano in questi campi. Ma non è naturale per un adolescente passare la maggior parte del tempo seduto a una scrivania a studiare”.

La persona sovra-socializzata è legata ad un guinzaglio psicologico e trascorre la sua intera esistenza percorrendo binari che la società ha costruito per lui.

Non esiste alcuna legge che dice che dobbiamo lavorare ogni giorno e seguire gli ordini di chi ci impiega. Legalmente non vi è alcun divieto che ci impedisca di andare a vivere in un posto selvaggio come i primitivi o di intraprendere un’attività indipendente, eppure la maggior parte di noi è convinto di poter sopravvivere solo come impiegato di qualcun altro.

La sovra-socializzazione può portare alla bassa autostima, a un senso di impotenza, disfattismo, al senso di colpa. Uno dei più importanti mezzi con il quale si sovra-socializzano le persone è far sì che queste si vergognino di comportamenti e discorsi contrari alle aspettative della società.

Così la maggior parte delle persone rimane occupata tutta la vita in una quantità infinita di comportamenti inutili, in linea con il processo del potere.

Processo del potere e Attività sostitutive

“L’uomo moderno è legato al guinzaglio da un sistema di regole e regolamenti e il suo destino dipende da azioni di persone lontane da lui, che egli non può influenzare”.

Le nostre vite dipendono ad esempio dal fatto che gli standard di sicurezza negli stabilimenti nucleari siano mantenuti adeguatamente; o da quanto pesticida viene immesso nel nostro cibo o da quanto inquinamento vi è nell’aria, dalla competenza del servizio sanitario.

Perdere il lavoro o trovarlo dipende da decisioni prese dagli economisti del governo o dai dirigenti delle aziende, e cosi via.
La maggior parte degli individui non è nella posizione di sentirsi sicura di fronte a queste minacce se non molto limitatamente. La ricerca dell’individuo per la sicurezza è quindi frustrata, e porta a un senso di impotenza. L’uomo primitivo, minacciato da un animale feroce o dalla fame, può combattere in difesa di sé stesso o spostarsi alla ricerca di cibo. Egli non ha la certezza del buon esito di questi sforzi, ma non si trova indifeso di fronte agli aspetti che lo minacciano.

L’individuo moderno al contrario è minacciato da molti aspetti contro i quali è inerme: incidenti nucleari, sostanze cancerogene negli alimenti, inquinamento ambientale, guerre, aumento delle tasse, invasione del suo privato da parte di grandi organizzazioni, fenomeni economici o sociali di rilevanza nazionale che possono frantumare il suo stile di vita. Tali minacce non sono il risultato del caso ma gli sono imposte da altri, le cui decisioni egli come individuo è incapace di influenzare.

“Gli esseri umani hanno un bisogno biologico di processo del potere, che consta di tre elementi: lo scopo, lo sforzo e il raggiungimento dell’obiettivo”.

L’esempio più banale viene proprio dalle società primitive: recuperare cibo è un chiaro processo di potere in cui lo scopo è soddisfare la fame, lo sforzo è la caccia, l’obiettivo è la preda catturata.

Si potrebbe obiettare che anche nella vita moderna sia così. Ma le cose per Unabomber stanno diversamente.

Quando io, con il denaro guadagnato, mi reco in un supermercato per acquistare il cibo che mi sfamerà, replico in apparenza lo stesso processo di potere sublimato. Ma questo processo non è sotto il mio diretto controllo, non dipende da me.

Uno sciopero dei camionisti o dei cassieri può impedire il regolare funzionamento del supermercato e tutto si inceppa.

Ci troviamo costantemente ad affrontare situazioni e casi che sfuggono al nostro controllo. Ciò genera nell’uomo ansie, frustrazioni, depressione.

Quindi tendiamo a costruirci delle attività sostitutive: hobby, attività collaterali, interessi sportivi o culturali, nel tentativo di inventarci dei surrogati al vuoto di potere personale, che plachino la nostra angoscia, perché non siamo più in grado di dominare il nostro “processo di potere”.

Ma questo genera ulteriore frustrazione perché le attività sostitutive sono comunque percepite come riempitivi di un senso vero dell’esistenza che si allontana sempre di più.
La società moderna si mostra permissiva soltanto in materie che sono irrilevanti per il funzionamento del sistema. In quanto individui possiamo fare ciò che ci aggrada, ma non in quelle attività fondamentali al funzionamento del sistema, sottraendoci la libertà per ciò che conta realmente. E libertà per Unabomber è “l’opportunità di passare attraverso il processo di potere con obiettivi reali, non con quelli artificiali delle attività sostitutive; libertà significa avere il potere di controllare le circostanze della propria vita”.

Unabomb

Unabomber afferma l’impossibilità di riformare il sistema con la sua clamorosa uscita dal mondo e la sua battaglia folle e personale. Da matematico e uomo di scienza egli non rifiuta la tecnologia e lo sviluppo della società delle macchine, bensì quello che la società tecnologica ci toglie.

Non nega che il progresso possa portare benefici, ma afferma che esso si porta dietro altrettanta negazione della libertà, come nell’esempio da lui descritto sull’introduzione delle automobili.

“La tecnologia avrebbe dovuto liberarci ma non è stato così, come le auto, le abbiamo inventate e tutti di colpo potevamo andare dove volevamo, ma poi è diventato obbligatorio averne una, e così non siamo più liberi, siamo limitati, più costretti , ogni città è stata riorganizzata intorno alle auto, tanto che non puoi più procurarti da mangiare senza guidarne una. Noi avevamo il controllo, e ora siamo schiavi della nostra stessa tecnologia”.

Una volta che un’innovazione tecnologica è stata introdotta la gente di solito ne diventa dipendente. “La tecnologia obbliga continuamente la libertà a fare un passo indietro”.

Una critica frontale che prefigura tutti temi oggi attualissimi: il problema dell’individuo privo di senso, senza potere in un mondo che, abbandonando le piccole comunità, si globalizza, allontanandosi sempre più dalle esigenze locali; una tecnologia invasiva che in nome dei suoi vantaggi ci priva progressivamente della libertà intesa come possibilità di incidere sul progresso.

E’ un uomo moderno triste quello che Unabomber descrive.

Annoiato, demoralizzato, subissato da bassa autostima, senso di inferiorità, disfattismo, depressione, ansia, senso di colpa, frustrazione, e quindi sempre più abusivo, volto verso un edonismo insaziabile.
Un uomo sconfitto e rassegnato a vivere in un mondo che lentamente lo uccide.

Per assurdo intravede nel rifiuto totale della società la sua unica speranza di sopravvivenza, rispondendo con le sue bombe spietate.

“L’unica alternativa, l’unica speranza, l’unico modo per liberarsi è far saltare tutto in aria” scrive nel suo Manifesto.

Ma egli sa che è una strada impraticabile. Sa, nella sua lucida follia, che la forza del progresso è travolgente, inarrestabile. Non ci sarà bomba capace di arrestarlo. Unabomber sa di essere un terrorista. Uno sconfitto.

Epilogo

L’epilogo è malinconico. Il governo Usa ha volto l’accaduto a proprio vantaggio, ribadendo il concetto che chi rifiuta le regole è per definizione un pazzo, che verrà distrutto dal suo stesso odio.

Per chi invece si riconosce nelle idee di Unabomber, o se non altro in alcune delle sue premesse, c’è solo da rimpiangere che un’altra mente dal profondo valore intellettuale non abbia saputo fare un uso migliore delle proprie doti.

I crimini commessi da Kaczynski sono un dato di fatto, e per chi non abbia i paraocchi della legalità come valore supremo, ciò che li rende davvero imperdonabili è la mancanza di una strategia adeguata allo scopo.

Poiché quelle vittime, le sue vittime, oltre che innocenti sono state inutili.

Ed è proprio per questo che il loro sacrificio resta impigliato nella categoria ordinaria dei reati, senza potersi innalzare a quella superiore degli atti rivoluzionari.

Nonostante la sua grande intelligenza, Theodore Kaczynski è caduto nella più tipica cecità da frustrazione: nell’ansia di fare qualcosa, ha fatto la cosa sbagliata.

La cosa peggiore. La cosa che serve solo a farsi criminalizzare, demonizzandosi da un lato e ridicolizzandosi dall’altro, permettendo alle sue idee di venire risucchiate in un gorgo di esecrazione e di disprezzo.

“In questo momento stanno morendo più persone a causa degli antidepressivi, della chirurgia plastica, dei fast food, di quelle che avrei ucciso io nella mia vita. Eppure sono tutti terrorizzati da me. Perché quegli uomini in giacca e cravatta vogliono disperatamente dimostrare che io sono pazzo? E’ forse perché sanno che ho ragione? Hanno paura del giorno in cui dovranno spegnere i loro cellulari, le loro tv, i videogiochi e alla fine affrontare se stessi.
Ma io sono Unabomber, io sono il male, giusto?”

Theodore John Kaczynski, Unabomber


Mattin Di Lucia (da Fuori dalla Rete, Aprile 2018, anno XII, n. 2)

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