Censis – Sentimento degli italiani: rancore (2017) e cattiveria (2018)

Il rapporto

Censis, sfiorita la ripresa economica gli italiani adesso si sono incattiviti.

Presentato il cinquantaduesimo rapporto dell’Istituto con poche luci e molte ombre, abbiamo smarrito la fiducia e non riconosciamo più miti e divi. Boom dei single

di Alessandra Arachi (Il Corriere della Sera)


C’è una parola chiave che il Censis sceglie quando presenta il suo rapporto annuale. Quest’anno è: la cattiveria. E viene dopo il rancore del 2017. Ci rende cattivi l’economia che non decolla, il patto sociale che si è rotto, l’ascensore sociale che non funziona: meno di un italiano su 4 (il 23%) pensa di avere una situazione socio economica migliore di quella dei propri genitori. Di più: il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle con basso reddito sono convinte che la loro condizione non cambierà mai. Così come il 56,3% di tutti gli italiani pensa che le cose nel nostro Paese non sono affatto cambiate. Ed è difficile farle cambiare quando abbiamo smarrito anche i miti, gli eroi, forse anche i santi. Un italiano su due (il 49,5%) è convinto che chiunque può diventare famoso, basta internet, e dunque i modelli a cui ispirarsi non servono più.

Non crescono i salari

Forse basterebbe un solo dato a riassumere la crisi di un’Italia dove l’economia non soltanto non decolla ma è stagnante da davvero tropo tempo: in 17 anni il salario medio degli italiani è aumentato di 400 euro l’anno, che poi sarebbero 32 euro se calcolati su 13 mensilità. Un paragone con i vicini europei? In Francia nello stesso lasso di tempo si sono trovati oltre 6 mila euro in più l’anno, in Germania quasi 5 mila.

Pessimisti e ostili

E’ facile capire come tutto questo generi un pessimismo che si è strutturato negli anni, il Censis ci dice che oggi più di un italiano su tre, il 35,6% è pessimista perché scruta l’orizzonte con delusione e paura e soltanto il 33,1% ha un po’ di ottimismo. Facile capire anche come a fronte di tante difficoltà venga spontaneo cercare un capro espiatorio. C’è un’ostilità diffusa verso lo straniero nel nostro Paese: più di sei italiani su dieci (i l63%) la dichiara apertamente, contro il 52% della media europea. Di più: in Italia il 45% è ostile anche verso gli immigrati comunitari, e quasi il 60% è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.

I politici tutti uguali

Siamo cattivi e disincantati, dunque. Non solo miti e santi, ma nemmeno ii politici ci ispirano più: per il 49,5% degli italiani i politici sono semplicemente tutti uguali , ma questo purtroppo lo pensa il 73 dei giovani under 35. Del resto lo si vede nelle urne: in cinquanta anni, dal 1968 ad oggi, gli astensionisti si sono triplicati (passando dall’11,3% al 28,4%) e oggi sono un popolo di 13,7 milioni alla Camera e 12,6 milioni al Senato.

Un mondo di single

Ci si sposa sempre meno e ci si separa sempre di più. Insieme al patto sociale, l’Italia registra la rottura delle relazioni affettive stabili. Dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4% e le separazioni sono aumentate del 14%. Aumenta la «singletudine»: le persone sole non vedove negli ultimi dieci anni (dal 2007 al 2017) sono aumentate del 50% e oggi sono più di 5 milioni.

«Lavoro lavoro lavoro»

«Abbiamo visto sfiorire la ripresa e l’atteso cambiamento miracoloso non è stata una palingenesi», dice Massimiliano Valerii direttore generale del Censis, spiegando come l’Italia sia anche «orfana di una narrazione forte entro la quale costruire la nostra identità e radicare il nostro benessere». Oggi purtroppo prevalgono «una coscienza infelice, una speranza senza compimento». E Valerii si chiede: da dove e da cosa ripartire, per poi rispondersi, senza alcun dubbio: «lavoro lavoro lavoro».


La fotografia del Censis (di Dario Di Vito, Il Corriere della Sera)

Se l’Italia diventa cattivista 

La pancia del Paese da indolente è diventata cattiva e siamo davanti a una trasformazione antropologica degli italiani che non sono più la «brava gente», hanno preso invece a moltiplicare egoismi, chiusure e invidie.

Dobbiamo deciderci ad aggiornare la fotografia buonista della società italiana. Lo chiede il Censis che pure ha raccontato negli anni con continuità e compiacimento la capacità adattiva degli italiani, il ventre molle che li portava ad essere protagonisti riluttanti della modernizzazione del Paese. Proprio per questa sottolineatura Giuseppe De Rita ha attirato su di sé l’accusa di essere indulgente con le pigrizie italiane, se non addirittura di giustificarle. Ebbene nel Rapporto 2018 la fotografia buonista va in soffitta e spunta la parola «cattiveria», indicata come sostantivo ricco di significati e denso di contenuti sociali. La pancia del Paese da indolente è diventata cattiva e siamo davanti a una trasformazione antropologica degli italiani che non sono più la «brava gente», hanno preso invece a moltiplicare egoismi, chiusure e invidie. Argomenta il Rapporto: «Sono diventati normali opinioni e comportamenti che erano indicibili solo fino a qualche tempo fa». E ancora:«Le diversità sono percepite come pericoli da cui proteggersi e la dimensione culturale della insopportazione degli altri sdogana ogni sorta di pregiudizi, anche i più passatisti».

È francamente difficile non condividere la fenomenologia di cui sopra, la si può rintracciare quotidianamente nelle cronache nazionali ma al momento di indagarne le motivazioni il Rapporto Censis scarta ed evita una lettura tutta politica e forse scontata. L’innesco della cattiveria non viene prevalentemente dall’alto, dall’azione consapevole e cinica di soggetti politici come Lega e Cinque Stelle, la radice di questa trasformazione va cercata in basso, negli orientamenti popolari più profondi. La politica e le sue retoriche — dice il Censis — rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo definito «psichico» in quanto si è installato nella testa e nei comportamenti degli italiani.

Ma se la radice non è politica dove ha preso alimento la svolta della cattiveria? La prima risposta rimanda all’economia e alla materialità della crisi con il suo carico di esclusione, sofferenze e privazioni. La fenomenologia anche in questo caso è ben nota e riporta al miraggio di una ripresa durata troppo poco, al ristagno del Pil, ai consumi piatti, allo stop degli investimenti e persino dell’export e soprattutto rimanda alla mancanza di lavoro. È stato dunque un pervasivo sentimento di solitudine sociale ad alimentare un sovranismo spicciolo che vede l’ingiustizia e la disuguaglianza tutte originate dalla sottrazione di potere nazionale. E che si nutre di un facile capro espiatorio: l’immigrazione. Più i cittadini italiani si sentono fragili più la loro contrapposizione alla società aperta si fa radicale e le opinioni sul fenomeno migratorio registrano un’impennata della diffidenza. La seconda risposta ci porta alla relazione che si è stabilita tra il popolo del rancore, il suo peso gettato nelle urne e l’auspicato cambiamento. Il Rapporto non è tenero con la maggioranza gialloverde guidata da Giuseppe Conte non perché ne sottolinei l’incompetenza e l’improvvisazione ma perché dà già per scontato che il cambiamento miracoloso promesso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio resterà al palo e la successiva disillusione non produrrà certo il ritorno agli equilibri politici ex ante. Renderà, invece, ulteriormente cattivi gli italiani che «sono pronti ad alzare ulteriormente l’asticella, sono disponibili persino a un salto nel buio». La metafora è di quelle forti ed evoca il peggio.


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