Idiocracy

di Martin Di Lucia

Rischiamo l’era di “Idiocracy”: il benessere diffuso è causa generale dell’abbassamento dell’intelligenza umana, che risulta non più necessaria per la sopravvivenza.


L’umanità sta diventando sempre più stupida. Lo aveva profetizzato nel 2006 il film Idiocracy. Il prologo mostra come le persone intelligenti finiscono col riprodursi sempre meno, risucchiate dal vortice della realizzazione professionale o frenate dagli scenari preoccupanti in cui metterebbero al mondo i loro figli, mentre quelli dotati di un QI più basso, sprovvisti di scrupoli riguardanti l’atto riproduttivo, popolano il pianeta con generazioni di stupidi.

La trama è questa: un archivista viene scelto come soggetto per un esperimento di ibernazione, dal momento che incarna tutte le caratteristiche dell’uomo medio. Cinquecento anni dopo, in un’epoca in cui il quoziente intellettivo medio si è drasticamente abbassato, il protagonista crede di avere le allucinazioni dovute all’ibernazione, ma ben presto si accorge di essere finito davvero nell’anno 2505, dove la popolazione è composta da individui patologicamente idioti che hanno portato la società e l’ambiente sull’orlo del disastro. In seguito viene arrestato e portato alla Casa Bianca dove è nominato, con sua sorpresa, ministro dell’interno, in quanto il test d’intelligenza lo ha identificato come l’uomo più intelligente del mondo.

Una sciocca commedia americana; ma rivedendo quel film a distanza di poco più di dieci anni se ne trae una fotografia spaventosa della realtà cui assistiamo oggi.

Una teoria provocatoria elaborata da un genetista della Stanford University afferma che, in base a come si sta modificando il patrimonio genetico e intellettivo del genere umano, i giorni migliori del nostro intelletto sarebbero già passati.

Secondo lo studio, l’uomo sta perdendo le sue capacità intellettive ed emotive poiché nella società che abbiamo costruito non c’è più bisogno della creatività e del ragionamento per sopravvivere, quindi l’intelligenza potrebbe diventare una facoltà che potremmo perdere.

Prima dell’invenzione dell’agricoltura e della scrittura, quando l’uomo viveva ancora di ciò che riusciva a cacciare o a raccogliere, chi compiva un passo falso soccombeva banalmente alle dure leggi della Natura.

Ad andare avanti e a riprodursi erano i più forti e i più intelligenti. Oggi, a quanto pare, non è più così.

Nonostante le scoperte scientifiche e i progressi tecnologici dell’era moderna, l’uomo di duemila anni fa era molto più intelligente dell’uomo contemporaneo; quest’ultimo, sempre secondo lo studio sopra citato, sarebbe da un punto di vista evoluzionistico sul viale del tramonto.

Un cacciatore che non riusciva a procacciarsi il cibo o un rifugio moriva insieme alla sua progenie, mentre oggi un funzionario di Wall Street che commette un errore concettualmente simile riceverà ugualmente un bonus finanziario e, quasi certamente verrà considerato un potenziale partner da più donne. La selezione naturale è una cosa che ormai appartiene al passato.

In quale tempo collocare, dunque, l’apice dell’umanità? È emerso che l’uomo avrebbe subito numerose variazioni negli ultimi tremila anni: una spirale discendente che ha portato l’umanità verso un progressivo e ineluttabile istupidimento genetico nell’arco di 120 generazioni. Con tutta probabilità, la nostra forza intellettuale ha cominciato a calare proprio con l’invenzione dell’agricoltura e con il sorgere delle prime comunità stanziali.

È sufficiente che la selezione naturale diventi meno severa che subito il nostro patrimonio intellettivo si indebolisce.

Siamo una specie sorprendentemente fragile dal punto di vista intellettuale e probabilmente abbiamo raggiunto il nostro picco di intelligenza tra i 6.000 e i 2.000 anni fa. Non a caso la storia incorona il tempo della Grecia classica come uno dei periodi intellettualmente più fecondi della storia umana, secoli che hanno fissato i cardini delle società occidentali moderne, fondamenti tramandati fino ad oggi. Oggi. Quali sono i fondamenti cardine delle società occidentali di oggi?

Oltre 50 anni fa, ovvero quando internet ed i social network, con relative “legioni di imbecilli”, ancora non esistevano, Umberto Eco aveva descritto nella Fenomenologia di Mike Bongiorno ciò che già stavamo diventando e che oggi sempre più tristemente siamo.

Schiavi dell’iper-semplificazione, della distrazione perpetua, di sogni irraggiungibili e, per questo, paradossalmente più quieti di quelli concretamente perseguibili; di rapporti umani impossibili e, altrettanto paradossalmente, più rincuoranti per una generazione di confusi emotivi e di pusillanimi affettivi, tali da incoraggiare un Don Abbondio.

Riflettendoci bene, in un mondo tanto frenetico, in cui si passa il tempo a raccontarsi che non si ha più tempo di fare nulla se non ricordarsi che si ha poco tempo, è un mondo che travalica la schiavitù imposta da entità terze ed esonda nella vera e propria dipendenza auto-alimentata, quasi desiderata. Siamo dipendenti dei pochi caratteri, dei testi scritti per bimbi scemi, del non approfondimento, del giudizio sommario, della dualità che non lascia spazio alle sfumature. Ormai anche chi sa di lettere è portato a scrivere in maniera semplice e sintetica, mosso dal timore che chi legge possa annoiarsi e/o non capire. Periodi brevi, metafore banali, vocaboli da terza media o da chat su WhatsApp. È frustrante e deprimente. Mai come oggi siamo dipendenti dal consenso del prossimo, di qualunque “prossimo” possibile ed immaginabile. L’unico obiettivo sembra essere quello di accontentare i più scemi, i più ignoranti, i più distratti. Il contenuto ormai esiste solo in funzione dei suoi consumatori ed è prodotto in totale ed esclusiva fruizione dei loro gusti (e dei loro vizi). Chi fa informazione sempre più raramente propone autonomamente, ma prepara e confeziona articoli che, fin dal titolo, sono pensati per sfamare i divoratori ingordi di “junk news” (notizie spazzatura). I contenuti così non hanno identità propria, ma si limitano a riflettere quella di chi dovrebbe leggerli, per dare conferme più che per trasferire spunti nuovi. È chiaro che esistono ancora eccezioni per fortuna, ma il problema è proprio questo: sono eccezioni.

Già il pensiero di Eco, ad esempio, sarebbe da molti considerato troppo complicato da comprendere e quindi poco adatto alla divulgazione. Ed è ciò che temo, che non avremo nuovi Eco o che comunque saranno sempre più rari gli scrittori di un certo calibro, che potranno concedersi opere non pensate per il solo pubblico di massa. Temo la deriva presentata nel film Idiocracy.

Non sono mai stato uno di quei ridicoli snob convinti che meno una cosa è letta e diffusa e più significa che è colta e di valore.

Tutt’altro: sono per la diffusione della buona cultura e delle letture di qualità alle masse. Sono per l’alfabetizzazione crescente e proprio per questo mio desiderio di una cultura vera, non inutilmente elitaria, profonda e diffusa, resto sgomento e preoccupato quando mi rendo conto di quanto si restringa l’appeal verso approcci meno superficiali al sapere.

Aumentano a dismisura le persone laureate, ma diminuiscono i lettori impegnati, poiché sempre più gente è impegnata a restare ipnotizzata da gif e video che scorrono sul proprio feed di Facebook o a cazzeggiare sui gruppi WhatsApp. Le nuove tecnologie ci hanno promesso più tempo libero e quindi meno stress, ma in realtà hanno riempito il nostro tempo libero di numerosi vuoti e di nuove dipendenze, di comportamenti pigri e compulsivi. L’uomo circuito dai mass media si è involuto in un essere con la capacità di concentrazione e di evasione immaginifica annegata dai “new media”, in questo ancora più pervasivi e persecutori di quelli vecchi.

Camminiamo con il capo chino su apparecchi che non ci lasciano mai soli, isolandoci al contempo dagli altri, mantenendo la falsa promessa di una connessione costante con chiunque. Si inebetisce così la relazione fisica e la si negozia con una comunicazione compulsiva che riempie inesorabilmente ogni spazio di solitudine meditativa. Siamo continuamente strattonati da input che sono come fantasmi dispettosi: svaniscono subito dopo che ci hanno toccato la spalla.

I nostri cervelli sono sotto bombardamento continuo e cercano di difendersi da qualcosa che la natura stessa non aveva previsto. Diversi studi, oramai neppure più tanto recenti, dimostrano come e perché la struttura cerebrale dei nuovi “dipendenti digitali” si modifichi, proprio come quella dei tossicodipendenti. L’effetto è reso poi ancora più alienante dai nuovi algoritmi che, ossessionati esclusivamente dai nostri interessi, ci relegano all’interno di gabbie virtuali pre-costruite; veri e propri recinti per accogliere il nuovo “parco buoi” cibernetico, espressione di persone reali sempre più dipendenti dal virtuale.

Aumentano dunque gli stimoli inutili e distraenti ed il multitasking patologico, mentre diminuisce la capacità di concentrazione ed il tempo libero non dedicato esclusivamente all’intrattenimento. Non oso immaginare quello che queste tendenze comunicative sempre più violente e pervasive provocheranno nelle nuove generazioni, ma so che la nostra unica speranza di salvezza dalla dipendenza all’iper-semplificazione è il tenerci saldi alla nostra identità, al pensiero di ciò che desideriamo comunicare, al di là di ciò che la massa di nuovi analfabeti dell’attenzione saprà e vorrà recepire.

Pensare che quegli stramaledetti contatori di likes e condivisioni, divenuti unico e vero metro cyber-divino per la misurazione dei nostri risultati nella vita, restino solo uno specchietto per vanesi. La nostra identità, il nostro successo, stanno nelle persone che riusciamo a far riflettere e ad arricchire con ciò che facciamo e diciamo.

Dobbiamo evitare a tutti i costi l’era di Idiocracy

Martin Di Lucia

(da Fuori dalla Rete, Settembre 2018, anno XII, n. 5)

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