L’opera di Maria Rachele Branca: “Marte che ulula alla Luna”

Art Friche Zone

Mentre il contagio si diffonde in Irpinia, Art Friche Zone intende pensare a questo luogo e a questo tempo con un’opera di Maria Rachele Branca: Marte che ulula alla Luna.


Martedì, 17 marzo 2020: giorno X di un’epoca nefasta. Oggi è un ennesimo giorno di trincea, oggi è il “giorno di Marte” (dal latino Martis dies), il dio romano della guerra.

Un giorno suggestivo per evocare l’opera Marte che ulula alla Luna (2010) di Maria Rachele Branca (Bagnoli Irpino, 1965). Questa scultura in pietra è parte di un’installazione con traccia sonora dei Makardìa.

Qui, la testa decapitata di Marte, scolpita nella pietra, sembra quasi gettata, catapultata sulla terra: quella stessa terra che lo invoca in tempi bui. È una scena frammentata: nello squarcio di luce aperto sulla ghiaia – nello specifico breccia irpina – calpestata dal buio serrato in cui arde il sangue, la truculenta contorsione del capo, in un grido di aiuto o di carica, non lascia scampo.

In questo lungo buio, si fa largo un peso insostenibile, schiacciante: il peso dell’oppressione. E nel suo ululare a quella Luna indifferente, risiede un’afflizione sconfinata, armata del suo stesso smarrimento: il morire non esige che un’istante. E poi improvvisamente sentirsi tirare fuori, spinti alla vita da un urlo, un urlo strozzato, di uno stridore incalzante, che fende quell’oscurità cruenta.

Questo è l’impeto che Maria Rachele Branca porta nella sua scultura, sia essa plasmata nell’argilla, che scolpita – come in questo caso – nella pietra, con un forte senso materico: cerca nel gesto il flusso convulso della sua espressione. Rifuggendo la plasticità tradizionale, così come il forzato postmodernismo, è riuscita a trovare il suo equilibrio stilistico in linee che spesso raccontano di donne – anche qui i tratti sono delicati, in quanto si tratta di una divinità, seppur maschile e romana – in un’idea di scultura organica, capace di intrappolare la luce e le sue ombre.

La ricerca di tematiche impegnate, trattate sempre con compostezza, in Marte che ulula alla Luna, viene scardinata da un bisogno di rottura, di catastrofe. Accostando effetti di chiaroscuro installativi di grande raffinatezza, questa visione arcaicamente onirica del rapporto uomo-natura, si fa mitologia in chiave moderna: qui la divinità si riappropria della sua essenza primordiale. L’insanabilità di ogni conflitto nel sistema rituale e psicoanalitico conferisce maggiore intensità all’opera, capace di catturare l’occhio dello spettatore dentro il campo di battaglia dell’arte, in un serrato spazio metafisico.

L’installazione ha una forte fascinazione anche perché parte di una libera traduzione in musica dei Makardìa, con testo del Carmen Lustrale. Questo carme preletterario latino – il testo di cui disponiamo oggi è però la versione tramandata da Catone il Censore nella sua opera De agri cultura – è un’antichissima preghiera rituale rivolta al dio Marte.

Nell’eterno sentimento di impotenza dell’individuo al cospetto della Natura e delle sue forze arcane, il rituale rappresentava per l’uomo, il pater familias, parte di un culto privato per ottenerne la protezione e la purificazione (lustratio) degli arva, i campi coltivati.

Marte quindi non è solo il dio della guerra, ma è divenuto tale in un contesto storico già ellenizzato: in origine la sua funzione era di essere protettore dei campi e degli affetti. Ed è nei campi e negli affetti che avviene la guerra più grande, quella della fertilità, in quanto la sua assenza rappresenta la vera rovina del mondo in tutte le epoche:

«O padre Marte ti prego e scongiuro, […] perché tu i mali visibili e invisibili la sciagura e la devastazione la calamità e le intemperie impedisca, scacci e allontani […] »

ArtFricheZone (a cura di Rossella Della Vecchia)


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