Noi e De Mita, l’Irpinia e il suo feudatario

I ragionamenti contorti e prolissi, le processioni a Nusco, l’industria in montagna, il posto fisso, San Ciriaco festa nazionale, tressette e tessere, popolarismo e comunità, peones e fedelissimi, ma anche detrattori e avversari irriducibili. Per gli irpini De Mita non è stato solo l’uomo politico più importante che questa terra abbia conosciuto. Per gli irpini De Mita ha rappresentato un immaginario, un modo di intendere il rapporto con la cosa pubblica. In una parola: il potere, da combattere o sostenere, da difendere o abbattere.

Guida illuminata per alcuni, despota vendicativo per altri, Luigi Ciriaco da Nusco, classe 1928, figlio di un sarto, per decenni è stato percepito come un taumaturgo: l’unico in grado non solo di rappresentare o risollevare le sorti di una comunità, ma persino di decidere della vita, del destino e del futuro dei suoi abitanti. Che fosse leggenda o realtà, narrazione da bar o percorso obbligato, intere generazioni si sono sentite ripetere che per soddisfare le proprie ambizioni professionali, trovare un’occupazione, spesso solo per vedersi riconosciuto un diritto, “bisognava andare a Nusco”. E in tanti ci sono andati, colmi di riconoscenza e gratitudine, pronti a giurare fedeltà eterna allo scudocrociato e al suo capo.

Pratiche discutibili, certo. Perché «lungo questa china s’inciampava in troppe miserie», ha scritto Giampaolo Pansa in Cari estinti: «Assunzioni di bidelli e di impiegati subalterni, trasferimenti di professori, incarichi di preside, concorsi per condotte mediche. Piccole cose rispetto ai grandi intrallazzi di altri feudi democristiani. Ma che in questa zona contavano». E contavano molto, perché l’Irpinia di allora, prima del terremoto e della ricostruzione, era una terra emarginata, povera, agricola, semifeudale. E aveva bisogno di un feudatario, per esistere, per essere considerata.

D’altra parte, già c’era stato un altro ras sulla scena, Fiorentino Sullo, ministro e leader della sinistra di base, poi scalzato proprio dal giovane Ciriaco. Anche l’anticamera di Sullo – riporta Marco Damilano in Democristiani immaginari – era piena di povera gente in cerca di favori, «postulanti deferenti». De Mita e la Dc hanno dato dunque all’Irpinia un’occasione di riscatto sociale e di protagonismo nazionale, che passava anche attraverso metodi clientelari e dispotici, come peraltro accadeva ovunque nel Mezzogiorno, storicamente abituato più ad avere un padrone che un portavoce. Metodi che a metà degli anni ’70 facevano dire al socialista Giovanni Acocella, originario di Calitri: «Avellino è una provincia prigioniera di De Mita. Qui non c’è la democrazia. Qui ogni cosa è decisa da lui e i suoi amici. Per loro vale una sola regola: comandiamo noi e nessun altro».

Sarebbe ingeneroso però ridurre Ciriaco, e con lui quella generazione di democristiani partiti dall’Irpinia, a un gruppo di oligarchi esclusivamente impegnato nel distribuire posti e prebende in cambio di voti e sottomissione. Non si arriva così ai vertici dello Stato, non si diventa così leader di un partito di massa, ministro e Presidente del Consiglio. De Mita ha fatto parte di una classe dirigente, quella ribattezzata dei “magnifici 7”, colta, tenace, preparata e che, comunque la si pensi, ha traghettato l’Irpinia nella modernità, con risultati fatti di luci e ombre, che la storia si incaricherà di giudicare. In ogni caso, una classe dirigente rimasta con la fedina penale pulita. E non è poco.

De Mita, Mancino, Gargani, De Vito, Agnes, Bianco, Zecchino e altri hanno incarnato, insieme a pratiche sovente criticate dagli avversari, l’anima del popolarismo, della politica intesa come dialogo e mediazione tra interessi contrapposti. “Il clan degli avellinesi”, così venivano chiamati dalla stampa nazionale, oppure, secondo un celebre titolo del Corriere della Sera, “i manager della miseria”. «Ciriaco impazzì di rabbia», racconta sempre Pansa: «In un’intervista all’Espresso mi definì bandito e miserabile». Erano gli anni in cui l’Italia stessa era una gigantografia dell’Irpinia: sui giornali Napoli diventava “Avellino marittima”, e dal barbiere di fiducia di De Mita, “Tattalino” a Nusco, si facevano e disfacevano governi, s’incoronavano Presidenti della Repubblica.

La Dc irpina è stata dunque una miscela di gestione e pensiero, di alta politica e risiko delle poltrone, dove il clientelismo, per i suoi interpreti, non assumeva connotati deleteri, ma rispondeva a un bisogno sociale, svolgeva una funzione. «Il politico è come il medico – amava ripetere De Mita – deve guarire le persone, non pensare di essere pagato, quella è una conseguenza». Per Ortensio Zecchino quel gruppo era coeso, di qualità e suscitava anche un po’ d’invidia: «Il resto erano leggende messe in giro dai nostri detrattori». Ai tanti cronisti giunti a Nusco per i funerali di De Mita, il 26 maggio scorso, l’ex ministro aggiungeva: «C’è una bella definizione di Moro, la democrazia italiana è zoppa perché la Dc è rimasta inchiodata al potere per tutti questi anni. Inchiodata voleva dire due cose, adempiere ad un dovere, certo, ma anche essere inevitabilmente contaminati dal potere, dai suoi aspetti negativi. Noi abbiamo avuto entrambe le cose».

Quel gruppo si è poi progressivamente sfaldato. Alcuni hanno preso strade diverse, mentre intorno a De Mita, negli anni, si sono succedute classi dirigenti più o meno riconoscenti, certamente meno all’altezza delle precedenti. Dalla fine degli anni ’90, l’influenza di De Mita sulla politica nazionale è andata scemando. Si è mantenuta invece pressoché intatta in Irpinia e, in parte, anche in Campania, almeno fino a qualche lustro fa. De Mita ha contribuito a far eleggere sia Caldoro che De Luca, avendo con entrambi rapporti altalenanti. In provincia di Avellino ha combattuto fortemente il Pd, soprattutto nei comuni e negli enti di servizio, diventati un vero e proprio campo di battaglia, postazioni da conquistare o difendere. Le processioni a Nusco, seppure sporadiche e sparute, sono continuate. Nell’immaginario collettivo De Mita è diventato sempre meno potente, sempre più rimpianto.

Gli ultimi anni l’ex Presidente del Consiglio – lui che aveva stretto la mano a Gorbaciov e Reagan – li ha trascorsi alla guida della sua amata Nusco, un tempo capitale della politica italiana, oggi un borgo bello e curato, ma spopolato e depresso, come buona parte dei comuni irpini. Da un anno De Mita non c’è più. L’Irpinia ne è orfana. Ne sono orfani i demitiani, disseminati ovunque, negli enti, nei partiti, anche nell’odiato Pd. Ne sono orfani gli avversari, che in De Mita hanno visto un monarca assoluto, l’ostacolo a una democrazia compiuta.

De Mita è morto senza eredi, e i suoi avversari, vissuti sull’antidemitismo, sono scomparsi con lui.

Senza una guida da adulare, senza un nemico da additare, i reduci di entrambi i fronti sono chiamati ad un’assunzione di responsabilità, che però sino ad ora non s’è vista. Le nuove classi dirigenti, incapaci di immaginare il futuro, si limitano a governare il quotidiano, mentre i giovani, che probabilmente di questa storia sanno poco o niente, sono spesso lontani dalla politica, rassegnati e disillusi. Lungi da nostalgie, la Dc e il demitismo – che ha avuto una stagione anche nei Popolari, nella Margherita e nell’Udc – hanno provato a coniugare bisogni e pensiero, gestione e visione. Oggi di visione e pensiero nemmeno l’ombra. Restano le poltrone, sempre di meno, riservate al cerchio magico di pochi capi bastone.

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