I comizi elettorali

Racconto in chiave satirica di Antonio Cella

(All’amico lettore: se tra i personaggi citati nella narrativa riconosci te stesso sappi che non sono stato io a parlare di te, ma sei tu ad illuderti che io l’abbia fatto).


Il primo comizio elettorale della campagna fu tenuto dal leader della lista “Colomba” il giorno dell’Epifania. Egli, prima ancora d’introdursi nel contesto politico, volle ringraziare i migranti scesi dal mondo al paese natio, per festeggiare il Natale:

“Sono fiero delle vostre mani callose! Lì, nella terra straniera, tendetele con orgoglio al vostro compagno di lavoro, sia esso nero, sia esso rosso, sia esso biondo. Mostratele con fierezza codeste mani generose: sono i supporti dell’umanità. Grazie, “compagno”, di avermi data la possibilità di stringerti la mano e, grazie di essere ritornato qui, tra noi.”

Inizia così la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale del comune di Bagnoli: anno di grazia 1970. Un discorso pacato, empatico, amico, che non faceva minimamente sospettare che dietro la facciata di perbenismo, dietro quel prologo pregno di uno sfacciato, ipocrita, “volemose bene” si nascondessero rabbia, volontà di vendetta, rottura di rapporti famigliari ed amicali e lo sconvolgimento di una società tranquilla, quieta.

Infatti, la nota dominante, conduttrice dei discorsi che seguirono dopo quella sera, non fu più tanto pacifica ma: anti-apologetica, denigratrice, pretenziosa contro l’uno o l’altro oratore, contro l’uno o l’altro candidato.

Locuzioni salaci, accuse assurde ed epiteti inenarrabili guizzavano continuamente dai balconi. Quando si scendeva nell’agone dell’oratoria offensiva, cadeva ogni vincolo di parentela e di amicizia. Niente meno si può dire del comportamento di famiglie patrizie, colte, e della borghesia: si servivano tutte di un vocabolario di sole parolacce.

L’acredine elettorale aveva ubriacato tutti, letteralmente. Si litigava per le strade, nei bar, nelle botteghe, nei negozi e finanche in chiesa. Non era più possibile radersi dal barbiere o prendere un caffè senza dover assistere a schermaglie tra tendenziosi. Le defezioni, perciò, si susseguivano a raffica in ogni settore: Caio abbandonava il barbiere Tizio, perché sostenitore della Colomba; Sempronio liquidava Caio, perché simpatizzante della Bilancia. E così di seguito. Ci fu un processo selettivo-preferenziale, specie nel campo commerciale: al salumiere di colore “X”, vecchi e nuovi clienti di colore “Y”; al pasticciere di colore “Y”, vecchi e nuovi clienti di colore “X”.

Il democristiano Medoro, nei suoi interventi, si serviva di un linguaggio mieloso e al tempo stesso misericordioso, molto pulito, che, a tratti, rasenta una forma sottesa di terrorismo ideologico, per incastrare vecchi e analfabeti nella trappola D.C.

E diceva:

“Cittadini. Prima di recarvi alle urne vi invito a pensare alla vostra anima. Non dimenticate che Lassù, nell’immensità dei cieli, c’è una fulgida croce. Quella stessa scelta dal mio partito a simbolo della pace, della democrazia. Votando per quel simbolo, ora Bilancia, non farete altro che prenotarvi un comodo posto in Paradiso. Votatelo! Fate sì che esso imperi anche tra le rosse quinte del nostro Municipio. E che segni la fine, una volta per tutte, del dominio troskista dell’amministrazione uscente. Votate per la Bilancia! Facendolo, avrete lavoro a volontà nel prossimo futuro. Ne avrete tanto, da desiderare il riposo. Apriteli, amici miei, codesti vostri occhi che da più lustri ci ignorano. Non sputate in faccia alla prosperità! Viva la Democrazia Cristiana, Viva Bagnoli e i bagnolesi tutti!”.   

Dopo di lui, si fece spazio sul palco un vecchio notabile della segreteria provinciale della D.C., per dare man forte al candidato sindaco.

“Amici di Bagnoli! Il potere politico di questo Comune non è sicuramente nelle mani di una classe eletta: sono gli affaristi a gestirlo! L’economia del paese è sull’orlo della catastrofe. Spero vi rendiate conto che non si può governare un paese col solo sporadico appoggio del Corpo Forestale dello Stato, che assorbe nei lavori boschivi circa un ventesimo del vostro contingente. Il paese ha bisogno di tante cose: ha bisogno di scuole, di strade, di abitazioni confortevoli e di un ospedale efficiente. Noi, col vostro voto, daremo pane e lavoro a tutti: costruiremo fabbriche, promuoveremo e incrementeremo la piccola industria, già esistente in loco, coi fondi dello Stato; daremo erba ai pascoli e protezione agli animali. Non avvertirete più il bisogno di migrare all’estero; La Germania, il Venezuela, il Belgio e la Svizzera non saranno più bagnate dal vostro sudore: esso sarà necessario qui in Patria. Resterete a casa vostra, nelle vostre famiglie, tanto affamate d’affetto. Mangerete il vostro pane al calore della schioppettante vampata dei vostri focolari, che arderanno legna secca e lineare e non  legna verde e nodosa, come quella datavi dall’amministrazione uscente”.   

Un intervento quanto mai demenziale! Una sfida all’intelligenza dei bagnolesi. E di tanto si accorse anche il rappresentante del P.C.I. che, immediatamente, accompagnato dalle bandiere col simbolo della falce a martello e dal suono dell’Inno dei Lavoratori si precipitò sul palco per dare inizio ad un infuocato contraddittorio:

“Lavoratori! Poc’anzi avete avuto modo di sentire dalla bocca di quel figlio di fascista, e fascista a suo tempo egli medesimo, che l’Amministrazione uscente da me incarnata, non è rappresentata da amministratori illuminati ma da una accozzaglia di cafoni incapaci. Mi vien da ridere, sì, mi vien da ridere. Non è necessario essere spiriti eletti per…(e qui una voce dal pubblico si erse sovrana: -Ti leggeremo! Non ti prioccupare che sarai letto! -)…gestire la cosa pubblica. Occorre soltanto un po’ di cervello, senso pratico e tanta buona volontà: è la fede che smuove le montagne! Sappiate che la legna storta dà precisamente lo stesso rendimento calorico di quella dritta; ed è una presa per il culo la storia della pioggia di milioni di lire promessavi in cambio del voto. L’esperienza insegna che la povertà non si tramuta in ricchezza nell’arco di una settimana. La vostra ricchezza dovete guadagnarvela col lavoro. Il Dio a cui Medoro alludeva, se è quello giusto, lo si incontra ovunque in ogni tempo e luogo: sulla vetta di ogni ideale umano e nel fondo di ogni abisso, sempre, imprevedibile e, al tempo stesso, misericordioso. Perciò, non lasciatevi intimorire dalle minacce di un cattivo parolaio: ipotecatevi qui, sulla terra, un buon posto di lavoro e lasciate da parte il Paradiso e l’Inferno, perché in quest’ultimo ci siete già dentro fino al collo, come Farinata, e ci resterete se prestate fede alla politica che preti e diccì vi propinano. In un momento di grande crisi economica e di svuotamento delle ideologie partitiche (e qui, un’ovazione di applausi alla difficile terminologia dell’oratore parte proprio dal pulpito) è anacronistico promettere comodità e abbondanza. Smidollati! Con le vostre chiacchiere non vi comprate nessuno!

So bene, io, i sacrifici che abbiamo fatto per dare un volto umano al paese: negli anni addietro abbiamo amministrato le poche risorse accumulate nel tempo con oculatezza e, modestamente, con perizia. Con le sole risorse del demanio comunale, abbiamo creato strade interpoderali e rifatta la pavimentazione di quelle urbane; abbiamo estesa la rete idrica a tutto il paese; abbiamo costruito i gabinetti pubblici in questa bella piazza perché, nel soddisfare i vostri bisogni di esistenza possiate ritrovarvi in essa e goderla nella conversazione; vi abbiamo data la possibilità di costruire la vostra casa sul suolo acquistato dal Comune, senza che abbiate tirato fuori di tasca una sola lira; vi abbiamo sempre esentati, inoltre, da ogni forma di onere tributario.

Cosa volete ancora da noi, signori diccì, che ci caliamo le brache?

Abbiamo fatto di Bagnoli una Repubblica nella Repubblica. E questo è niente. Vi possiamo fin d’ora garantire che nel prossimo futuro le cose cambieranno in meglio per ciascuno di voi. Non vi promettiamo la chimerica pioggia di milioni, ma vi assicuriamo una vera pioggia di posti di lavoro, grazie allo sviluppo di un grande progetto in itinere per la trasformazione del legno in manufatti. L’agricoltura, inoltre, presenta grosse possibilità, ma non si può continuare a praticarla come si fa oggi. Opereremo pertanto profonde trasformazioni nel settore; creeremo opere imponenti per l’irrigazione, per l’assetto idrogeologico e del suolo; costruiremo vasche di decantazione delle acque e incrementeremo la forestazione. Faremo sì, insomma, che il fenomeno dell’emigrazione cessi. L’industria alberghiera, infine, che col turismo sta prendendo quota in modo soddisfacente, completerà le nostre mira. Non dimenticate, perciò, figli dell’Irpinia, che il benessere si raggiunge attraverso il lavoro e non per mano dell’Onnipotente. I diccì si fingono aperti ai vostri bisogni soltanto alla vigilia delle elezioni, siano esse politiche, siano esse amministrative, come in questo momento; vi usano riguardi per meglio raggiungere i loro scopi. Vi accompagnano ai seggi elettorali in macchina, come se foste dei lords o dei miserevoli infermi. Passato tutto, non si degnano neppure di rispondere al vostro saluto. Perché? Perché siete quello che siete! Il proletariato da sfruttare, il cosiddetto ceto meno abbiente (e la solita voce dal pubblico: ma siamo anco il più forto, perché l’aceto combatte anco il colero!) vestito di stracci, dall’alito che puzza d’aglio”.

Fu il trionfo per Aulisio. Braccia forzute lo sollevarono come santo in processione, cantando a squarciagola: “Avanti popolo/alla riscossa/bandiera rossa/trionferà.

Tra questi, un amico fraterno, non avvertì più, quella sera, quel desiderio morboso di consumar passi nella piazza più bella d’Irpinia. Il discorso di Aulisio lo aveva turbato. Gli aveva fatto capire che il benessere è un aggettivo vuoto quando si esprime in lingua straniera. Aveva perfettamente ragione. Il benessere può anche essere composto di poche cose. Quelle essenziali, come libertà, altruismo, amore verso i figli, e quanto basti per tirarli su nel modo più umano.

L’opulenza d’oltralpe non l’aveva mai attirato. Tuttavia, per quelli che, ancor oggi, si sacrificano lontani dall’humus della terra natia, rimane sempre valido l’invito scolpito in lettere nere nell’antico arco della porta orientale del paese, che recita: “Ibis et redibis, semper pascua invenies”: Andrai e ritornerai e sempre troverai pascoli.

 Antonio Cella

(da Fuori dalla Rete, Marzo 2019, anno XIII, n. 1)


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