Il sapore della libertà

di Ernesto Di Mauro

Paura e speranza. Sono i due sentimenti di cui ci nutriamo in questa quarantena. Un contrasto di emozioni che ci fa sentire vivi, in questa battaglia contro un nemico invisibile. Un’altalena quotidiana che ci ricorda che anche noi, seppur spettatori, siamo nella storia del mondo.

Questo che stiamo vivendo non sarà un periodo transitorio verso un fatidico ritorno al passato. Evitiamo di raccontarci le bugie. Tutto ciò che è successo cambierà per sempre il nostro modo di vivere. Così entra in maniera perentoria, a gamba tesa, questa forma di socialità antipatica che si chiama distanziamento. Un modo di vivere freddo e obsoleto per noi popoli del sud, abituati al calore del contatto umano.

Tuttavia, per un motivo o per un altro, è un dato di fatto che al Sud abbiamo risposto in maniera più idonea a tutte le restrizioni imposteci. Fatta eccezione ovviamente per qualche testa di rapa che ci sta sempre. Ma comunque per sensibilizzare la gente a restare a casa ed evitare assembramenti incongrui si è resa necessaria una vera e propria costruzione della paura nella popolazione da parte delle Istituzioni, dei media e delle autorità sanitarie che paradossalmente è servita a stabilire quell’ordine necessario, affinché il virus rallentasse la sua corsa. Una vera e propria strategia del terrore, quindi.

In realtà c’è stata una prima fase di relativa preoccupazione, come per tutte quelle cose che ti intimoriscono ma alla fine sono lontane e quindi ti toccano leggermente, sfiorandoti la coscienza. Poi i primi casi e la paura di ammalarsi o vedere ammalati i propri cari. Il tam-tam di telefonate per capire, conoscere e trasferire informazioni che da San Vito arriva all’Ospedale, passando per la piazza e la Vadduvana. Con un raffreddore a San Vito che si tramuta in un coma irreversibile all’Ospedale. Ma il nostro amato Paese è anche questo. Anzi parlando qualche giorno fa con alcuni amici dei paesini dell’Avellinese dicevano che più o meno è una caratteristica di tutti i piccoli paesi irpini.

Siamo quindi entrati in una fase di conoscimento profondo della patologia. Ci siamo informati, documentati su internet e dai nostri amici. Come sempre siamo poco avvezzi a fidarci delle Istituzioni, sanitarie o amministrative che siano. In alcuni casi non sbagliamo affatto, ma di questo verrà il tempo di parlarne. Non ora, certo che l’emergenza ancora non è finita.

Le peculiarità di una malattia subdola spulciate dagli esperti, una malattia per cui non esiste un farmaco specifico ancora oggi.  Il bombardamento mediatico con i dati giornalieri, le dirette, i video, i collegamenti in ospedale. Il tutto culminato in quell’immagine tragica dei camion dell’esercito che portano via da Bergamo bare con donne e uomini che non ce l’hanno fatta. Abbiamo persi i nostri nonni, le radici della nostra società. E quando muoiono le radici, l’albero si indebolisce, è chiaro.

Ad un certo punto però ci abbiamo fatto il callo. Siamo entrati nella nostra fase due: quella della speranza. Abbiamo avuto la necessità di aggrapparci a qualsiasi notizia positiva per non essere accoppati dalla paura. Il farmaco che forse ha un effetto, le nazioni che ci aiutano, i medici Cubani, gli Albanesi, i Cinesi, le mascherine prodotte dalle nonne, la gara di beneficenza per gli ospedali nei paesini, l’appello per 300 medici in Lombardia a cui ne hanno risposto 3 mila. Si è riscoperto l’orgoglio di essere italiani, diciamo.  Ora siamo prossimi alla riapertura ed è venuto il tempo di chiedersi come sarà la nostra fase tre, quella dell’uscita dallo status quo. Ci siamo creati una sorta di comfort zone tra le mura di casa nostra, pensando che al di fuori di queste siamo in relativo pericolo. Cosa ci aspetta la fuori è tutto da capire, possiamo solo immaginarlo. Nessuna stretta di mano, nessun abbraccio, nessun saluto caloroso, nessuna riunione di donne e uomini. Niente di quanto eravamo soliti fare prima. Sarà dura dal punto di vista organizzativo trovare il modo di condurre una vita simile a quella che era prima.

Ma in un certo qual senso aspettiamo questo momento con ansia, anche solo per capire come reagiremo di fronte a questo cambiamento. Diciamoci la verità. Spesso e volentieri siamo cattivi con il posto in cui viviamo. Non possiamo però dire che non ci siano mancate le nostre domeniche in piazza, le storie romanzate al passo di ‘’licina’’, il panino di Titoff e la carne di Pietro, il verde del Laceno e il giro intorno al Lago. Tutti i nostri più succulenti sapori.

Ernesto Di Mauro

(da Fuori dalla Rete, Maggio 2020, anno XIV, n. 2)

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