Il sogno del Parco Nazionale dei Picentini. Tra cervi, lupi, sorgenti millenarie e fenomeni carsici

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Diego Infante, componente del Gruppo Unitario Foreste Italiane, ci spiega l’importanza della petizione che ha l’obiettivo di nazionalizzare un’area naturale da oltre 62mila ettari che si estende a cavallo tra l’Irpinia e il Salernitano, attraversa 30 comuni e tra le sue foreste secolari ospita uno dei bacini idrografici più importanti d’Europa, capace di dissetare un territorio che va da Napoli al Tavoliere delle puglie


«La tutela dei Picentini è fondamentale non solo per le bellezze naturali, ma anche per preservare dall’inquinamento quelle acque che sono traccia preziosa e ricchezza inestimabile per tutto il Meridione d’Italia». Nel 1992 Lucio Bortolotti, nel suo atlante monumentale sui Boschi d’Italia, all’epoca del varo della legge quadro che istituiva le Aree protette, inseriva i Monti Picentini tra le “Aree di reperimento prioritario”, ossia le zone da destinare a Parco nazionale come previsto dalla normativa vigente.

A quasi 30 anni da quella pubblicazione, le parole di uno dei massimi studiosi dell’ambiente naturale in questo Paese, vengono riprese dal gruppo nazionale GUFI, Gruppo Unitario per le Foreste Italiane per una petizione on line che ha superato già le 1600 firme che ha l’obiettivo di istituire il Parco Nazionale dei Monti Picentini, indispensabile per proteggere quello che rappresenta un patrimonio ambientale di inestimabile valore non solo per l’Irpinia e il salernitano ma per tutto il Mezzogiorno d’Italia.

Attualmente, si legge nella petizione, «nulla è stato fatto per proteggere i Monti Picentini, eccetto l’istituzione di un parco regionale, che tra commissariamenti e inefficienze, continua a eludere il tema della conservazione degli habitat». Eppure il patrimonio ambientale del Parco Regionale dei Monti Picentini, che si estende su una superficie di circa 63 mila ettari e coinvolge ben 30 comuni tra le province di Avellino e Salerno, può essere considerato di prima grandezza non solo per la sua traccia millenaria costituita dall’acqua, principale riserva idrica dell’Italia meridionale, capace di soddisfare il fabbisogno di un’area che va dalla provincia di Napoli al Tavoliere delle Puglie, o per i fenomeni carsici, le grotte, le sorgenti e i fiumi che ne disegnano per lunghi tratti il paesaggio, ma anche per una fauna di rara bellezza che trova riparo in foreste secolari che hanno tutte le caratteristiche per trasformarsi in vetuste e ricevere il riconoscimento di Patrimonio dell’Unesco. Il tutto si innesta in uno scenario – quello campano – fortemente urbanizzato in cui l’area che da Piano Laceno si estende verso i comuni di Calabritto e Acerno rappresenta uno dei principali “hotspot” della biodiversità regionale.

Ed è proprio in questa zona che si incastona la principale ricchezza naturale di un territorio unico nel suo genere, puntellato da foreste disetanee e polispecifiche, dove è possibile osservare il lichene Lobaria pulmonaria, eccezionale bioindicatore che testimonia l’ottima qualità dell’aria nonché la naturalità e la vetustà delle selve rigogliose presenti nella zona. Scomparso nella Pianura Padana, ad oggi, la sua struttura simile agli alveoli polmonari, si può trovare solo nelle foreste vetuste e in Irpinia.

I rappresentanti del GUFI denunciando con la petizione «una pressione antropica illecita a cui si aggiunge anche una pressione legalizzata, fatta di incongrui progetti e cattive pratiche» che rischia di minare l’esistenza stessa dei Picentini, chiedono l’istituzione di un Parco Nazionale che potrebbe arrestare il deperimento di un territorio naturale in cui sono state censite ben 1260 specie botaniche, alcune anche rare come l’Abete bianco o il Pino nero, variante “Villetta Barrea” – trait d’union botanico tra il Parco Nazionale degli Abruzzi e il Parco Nazionale del Pollino – il Tasso, la Betula pendula o l’Acer cappadocicum lobelii.

Per non parlare della fauna selvatica, anch’essa di eccezionale interesse naturalistico, che annovera il lupo, unico gruppo montuoso della Campania ove il predatore non si è mai estinto, il gatto selvatico, la lontra, la martora, l’aquila reale, il falco pellegrino, il falco pecchiaiolo, il picchio nero, il rospo smeraldino, il gambero di fiume e la rosalia alpina.

«I Monti Picentini, in buona sostanza, rappresentano l’anello di congiunzione di un indispensabile corridoio ecologico che congiunge l’Appennino abruzzese a quello lucano. Un’area che andrebbe tutelata anche in considerazione della nuova Strategia europea per la Biodiversità, che intende destinare il 30% della propria superficie terrestre ad area protetta entro il 2030. Per fare questo bisogna far uscire dal cono d’ombra i Picentini e smetterla di cullarsi sugli allori della locuzione abusata di Verde Irpinia» sottolinea Diego Infantecollaboratore del GUFI, socio fondatore del Fondo Biodiversità e Foreste, componente del comitato promotore del Progetto Centenario promosso dal professor Franco Tassi e dal suo Centro Parchi Internazionale che ha l’obiettivo di istituire nuovi parchi nazionali a 100 anni dalla fondazione del Parco del Gran Paradiso, nonché vicedirettore di Simbiosi uno dei principali Magazine dedicato alla tutela ambientale.

Secondo Infante che per il Comune di Bagnoli irpino, a titolo gratuito, sta conducendo anche il censimento degli alberi monumentali in territorio boschivo, l’istituzione di un Parco Nazionale sotto il diretto controllo del Ministero dell’Ambiente sarebbe «l’unica garanzia di sopravvivenza per l’area dei Monti Picentini» che potrebbero affrancarsi dalla gestione regionale e ambire ad uno status nazionale che comporterebbe un «controllo costante del territorio con l’istituzione di uno stazionamento di Carabinieri forestali che adesso non c’è, una gestione più oculata del patrimonio floro-faunistico, una attenzione maggiore da parte dei media e un trasferimento di risorse adeguato alle reali potenzialità di un parco che potrebbe aprirsi ad una costante partnership con il mondo universitario, la Ricerca scientifica e i programmi Life finanziati dall’Unione europea e volti alla protezione dell’habitat, delle specie a rischio estinzione e delle biodiversità».

Il potenziale dei Monti Picentini è incredibile. Insieme al Parco nazionale del Matese e al Parco nazionale del Cilento, conserva le foreste più importanti di tutta la Campania. Non a caso è proprio al Cilento che secondo Infante bisogna guardare, dove pur tra tante criticità, si è avviato un processo di rewilding. «Nel Parco del Cilento c’è stato l’avviamento al bosco vetusto con la destinazione di aree del parco alla libera evoluzione della natura. In questo modo le aree in questione non verranno più toccate dai tagli selvicolturali che invece sono una pratica abusata da noi sui Picentini. In questo modo, nei prossimi anni avremo foreste vetuste che potranno ambire ad essere patrimonio dell’Unesco».

Ma oltre ad un patrimonio boschivo ad elevata naturalità che si innerva soprattutto lungo il Piano del Gaudo, tra i comuni di BagnoliCalabritto e Acerno, è proprio la traccia dell’acqua che da questi territori ne riceve la purezza, ad avere necessità di maggior tutela. «Una nazionalizzazione dei Picentini permetterebbe la salvaguardia dell’habitat anche di quei territori non compresi dal Parco».

Quando si parla di acqua nei Picentini non si può prescindere dai tanti fenomeni carsici che rendono questi luoghi di una bellezza da mozzare il fiato. «Nel Parco ci sono grotte con stalattiti e stalagmiti, un lago sotterraneo presente nella grotta dello Scalandrone nella zona di Giffoni Valle Piana, alimentato da una cascata posteriore con spiaggia di sabbia finissima e acqua in purezza. C’è poi la grotta dei Candraloni a Montella, altra porta di estremo fascino che evidenzia come in questo habitat naturale l’acqua la faccia da padrona».

La nazionalizzazione del Parco garantirebbe un opportuno monitoraggio del territorio assicurando, ad esempio, il deflusso minimo per le acque del Calore e il blocco delle captazioni irresponsabili e spesso illegali che non permettono ai fiumi di reggere quella portata minima che consenta la sopravvivenza della fauna fluviale. «Un esempio è dato dai gamberi di fiume, altra specie in via di estinzione che, invece, tra i Monti Picentini è ancora presente. Un controllo costante del territorio eviterebbe quello che è successo nell’estate del 2017 quando a causa della grande siccità si stava rischiando l’estinzione di questo tipo di fauna e solo grazie alla caparbietà di alcuni volontari gamberi e trote presenti nel Calore sono stati messi in salvo nella parte più alta dell’asta fluviale»

Franco Tassi, esperto di fama internazionale, già direttore per oltre 30 anni del Parco Nazionale d’Abruzzo, è stato il papà della Zonizzazione, un modello gestionale imitato in Europa che rappresenta ancora oggi una eccellenza per l’IUCN, l’Unione internazionale per la Conservazione della Natura, nonché l’unica risposta alla wilderness americana, unico sentiero percorribile in un contesto come il nostro dove non ci sono aree completamente selvagge e questi habitat devono convivere con le comunità e i paesi che distano alle volte anche meno di 15 chilometri dalle aree protette.

«Anche per il Parco dei Picentini bisognerebbe ricorrere in maniera più efficace al rewilding, permettendo alla Natura di riappropriarsi di quegli spazi erosi dall’azione antropica. Operazione che potrebbe risultare più agevole – nel Sud Italia – con l’istituzione di un Parco nazionale. Penso alla sciovia del Terminio, denominata Santa Caterina, realizzata negli anni ’60. Un esempio di rewilding sarebbe togliere quei rottami arrugginiti e favorire il ritorno alla natura – prosegue Diego Infante – Conservando l’esistente, destinando aree al rewilding, controllando maggiormente il territorio si può pensare di implementare l’escursionismo sulla base di un concetto elementare: la montagna la controlla e la difende solo chi la vive e la ama. Se miglioriamo la frequentazione abbiamo un monitoraggio più capillare del territorio, si evitano scempi clamorosi come i tagli abusivi e la Montagna smette di essere terra di conquista degli avventurieri della domenica ma diventa meta di un turismo lento, rispettoso della natura, capace di generare una seria economia di scala sul territorio».

In questo potrebbero giocare un ruolo imprescindibile i Cervi e i Caprioli specie che sono state cacciate fino all’estinzione alla fine dell’800 e che potrebbero essere reintrodotte in ambiente come fatto nel Cilento. O far partire uno studio e un monitoraggio sulla presenza del Lupo. «Il parco del Cilento deve essere un punto di riferimento per alcune ipotesi di lavoro e di sviluppo. Ambire a diventare parco nazionale significa anche scegliere la strada della ricerca scientifica. Sui Picentini manca addirittura uno studio e un monitoraggio sulla popolazione canide ed è un controsenso che questo avvenga proprio nella terra del lupo dove la sua presenza è quasi metafisica, ormai totemica».

Gerardo De Fabrizio (Orticalab.it)

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