L’amara realtà

di Antonio Cella

Il racconto che segue, è tratto da “IL CORTILE DEI PAZZI”, scritto nei primi anni ’70, che racconta una parte di storia di Bagnoli, luogo antropologico dove la tradizione, la memorizzazione, la leggenda di fatti, misfatti e curiosità non invecchiano mai.

È un intreccio di pettegolezzo, sagre amorose, storie vissute nel periodo bellico e nella coscienza di un popolo, che non si lascia attrarre facilmente dagli orpelli di politici rapaci.

È la ricostruzione di eventi realmente vissuti, affrontati con sottile ironia con l’ausilio di termini dialettali, che si snodano dal tessuto del vivere quotidiano in un’epoca lontana che, insistentemente, induce alla riappropriazione di quegli spazi vitali con gli stessi amici che, purtroppo, non ci sono più.

Voglio ricordare, a chi legge, che i nomi dei protagonisti sono tutti immaginifici. Pertanto, se tra quelli citati nella narrazione del racconto riconosci te stesso, sappi che non sono stato io a parlare di te, ma sei tu ad illuderti che io l’abbia fatto.

Antonio Cella


Michele, il postino, dovette bussare ben tre volte, prima che qualcuno di casa Gargano si decidesse ad aprire il portone. Fu l’ultimogenito di Rocco, finalmente, a prendere la lettera indirizzata al padre da persona che, evidentemente, aveva voluto conservare l’anonimato, visto che aveva lasciata in bianco la parte della busta riservata al mittente:

Rocco Gargano

Via Tommaso Aulisa,37

                                                                         Bagnoli Irpino (AV)

“Chi sarà mai?” Si chiedeva il ragazzo, “Questa grafia non mi è nuova. So scrivere appena, è vero, ma so vedere bene cogli occhi e discernere il bello dal brutto e il diritto dallo storto. Questa scrittura, che bella non è, mi ricorda tanto quella di…bah! Forse sarà qualcuno del partito che ha scritto a papà, per ringraziarlo per l’impegno profuso nella campagna elettorale appena conclusasi per il rinnovo del Consiglio Regionale, o, forse, dati i geroglifici, contiene l’ordine di  mobilitazione del partito per la “rivoluzione” che quotidianamente invoca da quando, per quanto mi riguardi, ho cominciato a capire le prime parole nel loro significato?

Bah! Gliela lascio nel gabinetto. La leggerà questa sera durante il solito bisogno.”

Rocco Gargano quel pomeriggio fu il re della “passatella”: i “frusci” e le “primiere” non furono avare con lui. Erano in tre al tavolo dell’osteria di Nuccia Manzo: lui, Pietro Bettua e Paolo Sardagnuolo. Tutti gran lavoratori e fedeli discepoli di Bacco. Il solo Sardagnuolo, era capace di tracannare un fiasco di vino in sole due sorsate. Quando comandava lui la passatella, gli amici del giro avevano scarse probabilità di assaggiare il nettare che li aveva riuniti in cantina, anche se avesse verso qualcuno di loro obblighi di riconoscenza o vincoli di sangue.

Pietro Bettua, buona “fiasca” pure lui, ma meno ingordo e spugnoso che, dopo una delle solite ubriacature, fu obbligato al ritiro nella quiete della sua casa. Ritiro impostogli d’autorità dalla gentile consorte da quando fu sorpreso, ubriaco, nel giardino dell’osteria con l’uccello in ammollo in un bicchiere di vino, che gridava a squarciagola:

“Mbriacat’ puru tu! MBriacat’ puru tu, accussì la facimu franca tutt’ e ddui e putimu rurmì ‘nzanta pace”.

Da allora, la moglie di Pietro abbatté il patriarcato. E, per punizione, gli tolse anche il libero accesso ai magri risparmi di famiglia.

Erano in tre, ma come fossero in dieci poiché, ad ogni “mano”, ad ogni “padrone”, consumavano una bottiglia di vino anziché tre bicchieri, uno per ogni partecipante al gioco, come si usa fare abitualmente.

Rocco comandò per tre volte le bevute, e per tre volte dispose del vino a suo piacimento. La prima volta, si fece prendere dall’altruismo cedendo circa un terzo di litro ai commensali, motivando l’insolita liberalità con le seguenti parole:

“La politica ci divise, il vino ci riunisca!”

La seconda volta, bevve tutto il vino, imprecando contro il Bettua:

“Hai votato Bilancia, simbolo della D.C., perché ti hanno promesso un posto da bidello alle elementari. Sei un porco arrivista! Un venduto, sei! Finirà quanto prima questa storia! Presto saremo NOI a comandare in Italia. Alle prossime elezioni politiche avremo la maggioranza che schiaccerà il clientelismo e il malgoverno. La Bandiera rossa sventolerà sull’intero “stivale”! Non ci saranno più i De Mita, i Rumor, i Moro e i Ciancimino a dettare leggi. Saremo NOI, gli operai, i protagonisti della storia. Faremo le grandi riforme, soprattutto morali, che conferiranno all’Italia il decoro per poter guardare, senza vergogna, negli occhi del resto del mondo!”

La terza bottiglia la bevve alla “garganella”, senza mostrare proclività alla bevuta comune. Fu, invece, largo di mano, e più duro del solito nell’invettiva:

I fascisti si dissetino pure con l’olio di ricino!”

Andò via lasciando appeso all’attaccapanni il cappello a larghe falde, dal quale non si separava quasi mai. Era contento. Contento di aver dato una lezione ai compagni d’osteria, ma tutt’altro che “compagni” di partito.

Di “compagni”, a suo dire, in paese ce n’erano pochi. L’abbondanza di voti al Partito Comunista scaturiva non soltanto da un radicato ideale, dalla ricezione del pensiero di Gramsci (di cui lui era cieco seguace, anche se il suo pluralismo discordava con l’egemonia totalizzante del maestro sardo), di Lenin e di Togliatti (che definiva leader scaltro, trascinatore, ma nudo del coraggio di Santus che denunciò apertamente la eliminazione fisica del cognato di Palmiro ad opera di Stalin, senza che lui muovere un dito) ma da una logica elementare, altrettanto socialista, che vede nelle classi sociali la caratura anticristiana dell’essere umano.

E si chiedeva:

“Perché il contadino, l’operaio, il bracciante e l’artigiano sono considerati estrazioni proletarie? E il professionista, il magistrato e l’imprenditore espressioni della borghesia? Che significato ha essere proletario o borghese? Quello di vederci divisi? Di saperci sfruttatori e sfruttati? Assassini e assassinati? Non siamo forse fatti della stessa materia? Proletari, borghesi, nobili e meno abbienti: carni! carni! carni!” 

I due litri di vino, ingollati più per dispiacere altrui che per piacere proprio, non l’avevano squilibrato minimamente: era lucido nella mente e fermo nel fisico. Attraversò con disinvoltura Piazza Di Capua, sempre brulicante di nugoli di indaffarati glossatori, quasi tutti ribattezzati nel sangue di Bacco di ultima annata e, senza prestar orecchio ai rintocchi dell’orologio del Gavitone, che dalle piane dell’etere soffiava gli ultimi respiri della giornata, infilò il portone della propria abitazione.

Il cesso di casa, per Rocco, aveva una triplice funzione: la prima, gli consentiva di soddisfare i bisogni d’esistenza; la seconda, gli dava la saporosa soddisfazione di leggersi l’Unità; la terza, infine, lo teneva lontano dalla petulanza della moglie. Entrato, notò subito la lettera sul coperchio del water. Odiava quel coperchio! E tutti gli oggetti a forma di scudo. Ogniqualvolta entrava in quel posto, si accertava sempre che non ci fosse disegnata, per opera di qualche mano infedele, la croce con il simbolo “Libertas”.

Lesse con difficoltà l’indirizzo sulla busta e, nonostante avesse impellente bisogno di svuotare la vescica, aprì nevroticamente col temperino dal manico d’osso la misteriosa missiva:

“Mio caro figlio,

sono appena ultimate le operazioni di spoglio delle sezioni elettorali del nostro Comune e, con gioia, mi accingo a comunicarti i risultati delle elezioni. Ti sto scrivendo dalla IV sezione dove, come sai, ho partecipato in qualità di vice presidente del seggio, alle operazioni di voto. Il Presidente, Prof. Russo, preferisce prepararsi da sé tutte quelle cose attinenti alla spedizione dei plichi con i documenti elettorali. Ho tutto il tempo, quindi, per farti il quadro della votazione prima di tuffarmi nel corteo dei “compagni” che tra poco si porterà in giro per le strade del paese.

Abbiamo vinto! Abbiamo vinto con uno scarto di 247 voti! Il nostro simbolo è stato votato da 1039 persone. La Bilancia, invece, è stata segnata da 792 biancofiori.

Grazie soprattutto al vostro intervento dall’estero, siamo riusciti anche questa volta a fare onore al partito. La IV sezione elettorale, rossa per antonomasia, ha partorito 101 voti di scarto ai rammolliti della Bilancia.  Sono gli amici del Rione San Vito, del Casale e della Vignarotta a fare la differenza in ogni tornata elettorale. Sono quelli che non fanno tremare la falce in pugno, e quando dicono quattro, “quattu so!”. C’è stata una sola scheda annullata nella mia sezione. Conteneva un voto espresso in rima:

<La diccì di Fanfani, piccoli e Taviani, non merita il voto degli italiani. Con Sergentiellu, Fonzu e Dell’Avemaria non sono mai stato all’osteria. Puoi anche leggerlo, fesso di un presidente, questo mio voto intelligente”.>

Peccato. E’ il solito Zi Fonzu, che ci frega quattrini e voto.

La radio ha annunciato proprio in questo momento che le sinistre stanno avanzando in tutta Italia. Coraggio, figlio, il grande sogno si sta avverando. Presto tornerai a casa, a casa tua, capisci? Tornerai a mangiare, in famiglia, il tuo pezzo di pane italiano.

Tra un paio d’ anni, o forse prima, ci saranno le elezioni politiche; il nostro partito toccherà, allora, la cima di quattordici milioni di voti e l’Italia sarà allora tutta rossa, come il vino di Castelfranci; soddisferà finalmente la fame di lavoro di noi cittadini di serie “b”; allevierà le angustie e le pene di chi, come te, è vittima dell’ostracismo voluto dai padroni della nostra Patria, dove tutti sguazzano nel benessere e nessuno lavora; dove la corruzione e la prevaricazione vivono in salotto e nelle sagrestie. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Questo dice la Costituzione. Io, invece, dico che l’Italia è una repubblica fondata sullo sfruttamento dei lavoratori del braccio, che si coprono di sputo all’estero per consentire ai “baroni” e ai preti di vivere nell’agiatezza. Questa è la verità!

Ti abbraccio. Tuo padre”

Scostò rabbiosamente il coperchio del vaso del cesso, e vi si accavallò sopra senza calarsi le brache, per leggere ancora una volta quella maledetta lettera che si era distrattamente indirizzata. Lui, però, era oltremodo convinto che alla missiva era stata cambiata la busta, per dispetto, per mano di qualche sagrestano dell’ufficio postale.

La beffa, e i propositi di vendetta verso gli operatori postali, gli sconvolgevano il pensiero. Nella sua mente formicolava un turbinio di voci, una confusione di persone di cui notava l’enorme bocca e grandi mani che lo spingevano verso un bosco di betulle. Ridevano e sghignazzavano, mostrandogli denti aguzzi ricoperti di capsule d’oro, al cui lucore provvedevano strani individui vestiti da preti, che inzuppavano continuamente un panno di filigrana nero in un bagno di sangue bollente. Quei tentacoli ossuti lo spingevano, insistentemente e ineluttabilmente, verso un bosco dovizioso di funghi di ogni specie (la sua passione): porcini, vesce, ovuli, gallinacci, chiodini dalla testa nera, che si scuotevano come canne al vento, che imploravano il suo aiuto per non finire schiacciati nel fondo senza fine di un grosso secchio di zinco, che pallide bambine dallo sguardo triste, trascinavano per la vegetazione umida di ombre.

“…lavoratori che si coprono di sputo all’estero, per consentire a baroni e preti di vivere nell’agiatezza…”

Parole che trapanavano il cervello stanco di Rocco. Che cadevano a scrosci dai rami spogli; che sbucavano, sibilanti, tra le felci rugginose; e dai tronchi putridi delle ceppaie degradanti. Gli brucavano, stridenti, i timpani, le guance, le labbra e gli occhi che, finalmente, gli si ammollirono al tepore di secche lacrime.

“Sono un povero illuso. Uno stronzo, ecco cosa sono. Stronzo! Stronzo! Stronzo!”

Lasciò cadere la lettera nel water e, disgustato, tirò la catenella.

Antonio Cella

(da Fuori dalla Rete, Maggio 2020, anno XIV, n. 2)

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