L’Italia al tramonto

di Luciano Arciuolo

Secondo i dati pubblicati dall’Istat qualche settimana fa, negli otto mesi trascorsi dall’inizio dell’emergenza sanitaria l’Italia ha perso 250.000 abitanti. Siamo ormai meno di 60 milioni e, andando avanti così, saremo ridotti a 46 milioni nel 2065, superati in questo anche dalla Spagna, che è invece riuscita ad invertire la tendenza con una politica migratoria attiva dal Sud America.

Non solo: nel 2065 l’età media degli italiani sarà di 51 anni, contro i 45 attuali, mentre un terzo degli abitanti avrà più di 65 anni.

E, cosa che ci riguarda più drammaticamente da vicino: il Sud Italia accoglierà solo il 29% della popolazione italiana, contro il 34% attuale. E questo spopolamento, da noi, è già in atto.

In pratica: l’Italia è un paese al tramonto, perché meno abitanti, e meno giovani, significa inevitabilmente minore tendenza all’innovazione, al cambiamento, al rinnovamento della società e, da un punto di vista strettamente economico, meno reddito, meno vivacità e, ad esempio, svalutazione del patrimonio edilizio pubblico e privato. Per il nostro Sud la previsione è ancora più fosca, perché lo spostamento dei nostri giovani verso l’estero o verso il Nord provocherà, come sta già facendo, non solo lo spopolamento, ma anche il maggior invecchiamento di chi resta.

E ancora: la numerosità di popolazione è un indicatore della vivacità, del buon funzionamento, della capacità di attrazione, del clima di fiducia di una nazione. Da questo punto di vista i numeri che arrivano dall’Istat, sia pure aggravati dalla pandemia, sono veramente preoccupanti e ci dicono che, in sostanza, siamo alla frutta.

Cosa fare?

Anche in questo caso è facile pensare alle risorse finanziarie che ci arriveranno dall’Europa nei prossimi anni e che, non per niente, fanno riferimento alle prossime generazioni (Next Generation EU). Queste risorse devono essere utilizzate soprattutto per invertire la tendenza al declino descritta, la quale ha cause ben precise: in Italia si investe troppo poco per i giovani. Basti pensare, per esempio, che la nostra è una nazione che spende per le pensioni il quadruplo di quanto spende per la Scuola e l’Università. Invertire la tendenza al pauroso calo demografico significa allora:

  • Investire sulla natalità e cioè sul mondo femminile, facendo in modo che mettere al mondo un figlio non sia più un percorso ad ostacoli, che obbliga spesso una donna a dover scegliere tra la maternità ed il lavoro, costringendola a dover comunque rinunciare ad un pezzo fondamentale della propria vita. Maternità e lavoro devono andare d’accordo, non farsi la guerra, in modo che una donna possa scegliere liberamente. Dobbiamo partire dal presupposto che la nascita di un bambino è un investimento sul futuro di noi tutti e quindi da incentivare fortemente, con facilitazioni e sostegni, contributi, strutture (asili nido disponibili e gratuiti, ad esempio) che oggi non ci sono e sulle quali hanno invece puntato tante altre nazioni europee, che sono così riuscite a migliorare i propri indici di natalità;
  • Investire sulla Scuola e sull’Università, che devono essere al centro delle scelte politiche dello Stato. Le Università, soprattutto, non devono formare studenti che poi vanno a cercare fortuna all’estero: al contrario devono ridiventare una attrattiva per studenti stranieri, come sono state in passato. I nostri atenei hanno una grande tradizione, ma non possiamo più vivere di rendita sulla storia. I giovani che prepariamo non devono essere utilizzati fuori, ma valorizzati qui, ad esempio pagandoli in maniera dignitosa, come fanno in Germania, negli Stati Uniti o in Inghilterra, dove peraltro i laureati italiani sono non solo apprezzati, ma addirittura contesi;
  • Investire su politiche di immigrazione serie, che permettano l’arrivo in Italia di energie giovani, nuove, motivate, positive, che diano il loro contributo alla risalita della china.

E’ una strada difficile, lunga, per alcuni anche indigesta. In una parola, è una strada impopolare. Ma è l’unica che abbiamo, l’unica che possiamo percorrere.

Luciano Arciuolo

(da Fuori dalla Rete, Dicembre 2020, anno XIV, n. 6)

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