“Perché possa ritornare la vita là dove oggi c’è solo un silenzio di morte”

di Paolo Saggese

Gerardo Bianco e il terremoto dell’80.


Il discorso, memorabile, di Gerardo Bianco, tenuto il 4 dicembre 1980 alla Camera dei Deputati in qualità di Presidente dei parlamentari democristiani, è un esempio di alta arte oratoria, ma anche di profondo senso dello Stato. Non a caso sarà edito nel volume curato dal direttore Gianni Festa, dal poeta Peppino Iuliano, e da chi scrive, dal titolo “Irpinia 1980-2020”. Il libro sarà distribuito nelle prossime settimane insieme al “Quotidiano del Sud”.

Il discorso dell’onorevole Bianco è ricco anche di grande pathos, del pathos di chi ha vissuto al fianco delle popolazioni irpine la tragedia del terremoto e adesso la rievoca pubblicamente e ufficialmente in occasione di uno dei momenti più difficili della nostra storia repubblicana. Infatti, il professore, politico di esperienza, sebbene ancora relativamente giovane (non aveva ancora compiuto cinquant’anni), fu in grado di rievocare con grande forza e di farlo rivivere a tutta l’Assemblea la drammaticità di quella tragedia. Tra le frasi incipitarie subito colpiscono queste parole: “Per alcuni di noi, questi morti non sono né entità astratte né numeri statistici: sono i volti riconoscibili di amici, di parenti; sono i paesi della nostra infanzia e delle nostre battaglie civili e politiche”.

Dopo questa prima riflessione, quasi confessione del suo dolore privato, Gerardo Bianco da fine politico cerca di attuare una strategia di pacificazione tra i partiti invocando “onestà intellettuale” e la necessità di una concordia al fine di non fare del terremoto uno “strumento di lotta politica o diventare elemento per fomentare discordie”. In verità, i ritardi dei soccorsi, le notizie frammentarie e imprecise, che non avevano consentito il possibile salvataggio di centinaia di persone intrappolate tra le macerie, l’urlo di dolore del Presidente  Sandro Pertini (il celebre “Fate presto” del 26 novembre), avevano scosso l’opinione pubblica non solo nazionale. La Nazione non aveva dato prova di efficienza, molte erano state le responsabilità, molti erano stati gli errori commessi, sebbene sarebbe stato difficile per chiunque in quegli anni affrontare una catastrofe di tale entità. I partiti di opposizione, con i loro giornali, avevano alimentato la protesta e l’indignazione, che si sente ancora palpabile durante lo stesso intervento di Gerardo Bianco (interrotto tra gli altri da Massimo D’Alema e da Giorgio Napolitano).

Ma proprio Gerardo Bianco era l’uomo più adatto a rappresentare gli interessi dell’Irpinia. Invocando la solidarietà di tutti, non negando gli errori commessi (a partire dalla notizia infondata che l’epicentro fosse ad Eboli o a qualche chilometro dalla cittadina salernitana), l’arretratezza tecnologica dimostrata dall’Italia, l’equipaggiamento inadeguato dei soccorritori, egli si pone il problema e l’interrogativo “inquietante” se fosse stato possibile salvare altre vite umane: “[…] il vero problema è stato l’intervento delle prime ore per tentare di salvare le eventuali vittime ancora in vita sotto le macerie; poi c’è stata una netta inversione a partire da mercoledì”. Ma aggiunge, opportunamente: “Certo dobbiamo fare un’autocritica, dobbiamo averne il coraggio”.

Il discorso di Gerardo Bianco, proprio di un politico di grande prestigio e qualità, non si ferma tuttavia all’analisi del presente. Guarda molto lontano, al futuro di un intero popolo. Analizza, ad esempio, con grande profondità d’animo, il dramma dei contadini che non vogliono abbandonare la terra, e ammonisce sull’errore che si potrebbe commettere di favorire un esodo di massa dall’Appennino meridionale: “[…] c’è il dramma di questa gente che si sente sradicata e forse teme, con quella intuizione esistenziale tipica della civiltà contadina, di essere proiettata in altre realtà che comprometterebbero la loro identità. […] Non possiamo accettare l’ipotesi che in queste terre, per lo sviluppo stesso della Campania, regione centrale del Mezzogiorno, e per la tenuta del Potentino e della Basilicata, che rappresentano momenti di grande storia e di grande significato, si creino vuoti e situazioni di ulteriore depressione”.

Per rispondere alla desertificazione occorre ricostruire subito, superare l’isolamento, favorire lo sviluppo delle reti di comunicazione e dell’industria.

Altro tema dominante nel dibattito fu l’accusa di clientelismo indirizzato alla DC e che sarebbe alla base dell’arretratezza economica dell’Irpinia. Qui molto aspra era la polemica alimentata dal Partito comunista. Anche in questo caso Gerardo Bianco assume una posizione equilibrata: da un lato riconosce i meriti della Democrazia cristiana, che è stata in grado di interpretare meglio le esigenze delle popolazioni meridionali, dall’altro riconosce le storture del sistema di potere (tante volte criticato dal suo amico Antonio La Penna): “[…] ci sono pagine che debbono essere voltate, vi sono elementi negativi e vi sono ombre che devono essere dissipate. Noi non ci nascondiamo, abbiamo il coraggio di fare le verifiche. Vi sono costumi che devono essere cambiati. Conviviamo con realtà clientelari di vecchia mentalità, che devono essere modificate”. Ma dichiara con forza il merito di aver lottato contro l’abbandono delle zone interne e per il loro sviluppo.

Nell’ultima parte del suo lucido e commovente discorso, Gerardo Bianco conferma la sua autentica posizione meridionalista, dal momento che compie un’analisi non solo della situazione emergenziale delle aree terremotate, ma la inserisce nell’alveo più ampio della questione meridionale: “È stato scritto, e giustamente, che si riscopre oggi il meridionalismo che forse qualcuno aveva messo in panne. Non lo avevamo dimenticato noi!” E come Manlio Rossi-Doria, anche il politico irpino richiama la necessità di circoscrivere l’azione emergenziale alle aree colpite dal sisma.

In tal modo Gerardo Bianco rivendica il suo ruolo politico nazionale ma anche quello di rappresentante delle aree più duramente interessate dalla tragedia. A nome anche degli Irpini chiede di nuovo solidarietà. E auspica: “Abbiamo realizzato grandi momenti di unità, perché, cari colleghi, tutti insieme, ciascuno per la propria parte, anche in modo rigorosamente critico, ma con spirito di obiettività, possa ritornare la vita là dove oggi c’è solo un silenzio di morte”.

La chiusa è degna di questo grande discorso, di un uomo, che appena aveva saputo della catastrofe da Roma si era precipitato ad Avellino e in Irpinia, era passato per Mirabella Eclano, quindi aveva toccato Sant’Angelo, Lioni, Teora e la Valle del Sele. Sarà passato anche per la sua Guardia.

E avendo assistito alla tragedia e avendo poi accompagnato il Presidente della Repubblica durante la sua visita dolorosa in Irpinia, il 4 dicembre, con il cuore gonfio di dolore, aveva raccontato all’Italia il terremoto del 23 novembre 1980.

Paolo Saggese

(da Fuori dalla Rete, Novembre 2020, anno XIV, n. 5)


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