Questa estate vado in montagna…

di Gerardo De Fabrizio (tratto da Orticalab.it)

Ecco come la pandemia trasformerà le nostre vacanze, all’insegna di una rinnovata voglia di ruralità.


Secondo l’ISTAT, quella ormai alle porte, sarà ricordata come la “stagione mancata”. Con 81 milioni di presenze rimaste a casa e 10 miliardi di spesa non realizzata, i flussi turistici provenienti soprattutto dall’estero si sono praticamente azzerati. E così la pandemia rischia di mettere fine allo strapotere della fascia costiera in favore delle aree interne come l’Irpinia.

Se è vero che fino ad ora le aree costiere e quelle delle due città metropolitane della Campania hanno catalizzato i maggiori flussi di questo rinascimento turistico tout court, è altrettanto vero che questo trend è stato completamente spazzato via dalla crisi sanitaria ed economica scaturita dal Coronavirus e dalle norme conseguenti per garantire il contenimento dei contagi. La ritardata apertura delle barriere tra regioni, coincisa con la Fase 3 iniziata lo scorso mercoledì, e la riapertura scaglionata delle frontiere ha creato non pochi problemi al turismo di città come Napoli e Salerno o di paradisi balneari della Costiera amalfitana e sorrentina, le isole di Capri ed Ischia, prese d’assalto in primavera proprio da visitatori stranieri.

D’altro canto l’emergenza Covid-19 ha fatto emergere una grandissima voglia di ruralità, di grandi spazi incontaminati, o comunque meno affollati, di aria pulita e prodotti di grande qualità orientando lo sguardo di molti turisti sia interni che esteri altrove. Se proviamo ad analizzare le aziende agrituristiche della Campania, attive nel 2018, scopriamo che sono 705, con un incremento rispetto all’anno precedente di oltre 4 punti percentuali. Di queste, 544 dispongono anche di camere per un totale di 5279 posti letto. Il 26% sono posizionate in montagna, mentre il 65% si trovano in collina e per il 49,1% sono gestite da donne, il che fa della Campania la terza regione in Italia per numero di conduzioni “rosa”.

Quello degli agriturismi è senza dubbio il settore maggiormente in crescita nella regione, con un fatturato di circa 1,4miliardi di euro e un aumento del 29% rispetto al 2007. La provincia con più agriturismi è senz’altro quella di Salerno con il suo Cilento mitico. Qui tra il mare e l’entroterra si registrano 223 Agriturismi, 188 dei quali con alloggio. Segue Benevento con 156 e Avellino con 134. Il numero maggiore di Agriturismi in montagna spetta, però, all’Irpinia con 80 strutture. Mentre, chi sceglie la collina potrebbe capitare nei 159 paradisi della provincia salernitana.

A fare di questo comparto uno dei più produttivi degli ultimi 10 anni ci pensa di sicuro la straordinaria diversificazione dell’offerta dei servizi che vanno dall’osservazione naturalistica all’escursionismo, dal cicloturismo all’equitazione, dalle attività di fattoria alla trasformazione dei prodotti, in una sola parola: esperienza.

Chi dell’allevamento delle proprie 450 pecore nell’areale vulcanico dove nasce il formaggio Carmasciano e dell’affinamento dei propri prodotti ha fatto una esperienza sensoriale a tutto tondo è sicuramente Angelo Nudo, founder di Carmasciando una delle aziende più sorridenti, visionarie e determinate dell’intero panorama regionale.

econdo Angelo, con l’emergenza Covid-19 «si sono rotti tutti gli equilibri» e adesso l’Irpinia può «rappresentare una concreta alternativa» alle solite mete regionali non solo per la prossima estate, ma in un arco temporale che va da marzo a dicembre. «Gennaio e febbraio vanno bene per l’ozio, ma poi questo territorio, unico per conformazione e per tradizioni, può recitare un ruolo importante nel turismo esperienziale. Basti che si abbracci una mentalità imprenditoriale volta alla creazione di valore».

La visione di Nudo è tutt’altro che svestita. «L’Irpinia deve candidarsi come un grande centro di accoglienza, un porto di montagna» un luogo in cui dare riparo a chi fugge dal logorio della vita moderna, si ascolterebbe in un antico adagio commerciale. Insomma, per usare le parole dell’uomo che è stato con l’azienda Feudi di San Gregorio uno dei fautori del rinascimento enologico del meridione d’Italia, «bisogna individuare la destinazione d’uso dei nostri territori, dei nostri singoli paesi, prendersene cura e far partire una rivoluzione culturale, prima, e di economia sostenibile, poi, declinata attraverso attività che possano generare valore».

«Questa situazione così particolare potrebbe essere una rampa di lancio per esplorare e promuovere territori ancora poco battuti. Ma dalle macerie del Covid, si può costruire qualcosa di importante attraverso progetti che non si devono fermare all’estate 2020 ma che devono proseguire negli anni».

Perché, come ci sottolinea Alessandro Izzo, «chi è abituato ad andare al mare, a mio avviso, continuerà a farlo. Ma tanti altri per la prima volta prenderanno in considerazione le nuove esperienze di cui sono ricche le montagne e i borghi in collina delle aree interne della Campania».

L’ESTATE IN MONTAGNA – LACENO EXPERIENCE

Ed è seguendo proprio uno di questi sentieri meno battuti che il nostro cammino si è incrociato con quello di Andrea e Danilo e i loro due splendidi esemplari di Siberian husky, in gita fuori porta da Caserta al Lago Laceno per ricongiungersi con le altimetrie della montagna.

«Conosciamo il Laceno da sempre, ma da qualche anno veniamo qui solo per fare qualche escursione con i cani. È un peccato che la Regione Campania non abbia mai investito seriamente su questo sito come fatto dal Molise con Campietello Matese. Mia figlia ha imparato a sciare lì e siamo costretti a portare i nostri soldi fuori regione – ci racconta con non poche note di disappunto Danilo – Ma guardati attorno. Per la bellezza del paesaggio per le eccellenze del territorio non c’è proprio paragone. Questo luogo è magico, andrebbe solo valorizzato per renderlo il polo sciistico più importante dell’Appennino meridionale».

Nella discussione si intromette Nicola Memoli, il gestore di uno dei pochi ristoranti del Lago che hanno subito riaperto i battenti dopo il lockdown a maggio. D’altronde siamo ospiti de Lo Spiedo, un ristorante che è anche una locanda vecchio stampo, dove si tocca il legno dei Monti Picentini, si sentono gli odori del sottobosco e la cucina è sempre in fibrillazione tra cartocci di porcini, formaggi insaporiti dall’oro nero della vicina Bagnoli irpino (il tartufo NDR) e antiche zuppe di fagioli e cipolle.

«Il Laceno, purtroppo, non è una località turistica a tutto tondo, anche perché non abbiamo mai goduto dei finanziamenti che la Regione, negli anni, ha elargito per la cintura costiera. Non siamo tenuti in debita considerazione e questo è un limite di chi ha sempre amministrato la Campania – ci fa notare – Non si tratta assolutamente di entrare in competizione con Capri o Positano. Noi possiamo ancora essere l’alternativa al mare ad appena 100km da Napoli. Con i nostri impianti a 1800 metri. Basterebbe che chi governa questi processi, da quest’anno in poi dicesse: «da adesso in poi l’entroterra è più importante della costa. Allora si che possiamo tornare ad essere il fulcro del turismo dell’Appennino meridionale».

Ripartire dopo il Covid-19 non dovrebbe essere impresa ardua. Sì, ma da dove? Una volta lasciatisi alle spalle la chiesa di Santa Nesta che saluta l’arrivo dei visitatori lo spettacolo che si apre davanti al nostro sguardo è contraddittorio. Da una parete la maestosità della Natura e dei suoi cicli vitali. Dall’altra l’opera antropica con i segni del tempo che non si rimette a nuovo da almeno 30 anni. In questo il Laceno ha avuto una certa coerenza e si concede un aspetto decadente, a tratti respingente, ma mai triste.

Rino Ferrante, vicesindaco con delega al Turismo del Comune di Bagnoli irpino, ma per tutti è il sindaco del Laceno. Pur essendo nato ad Avellino, da 40 anni ne è diventato cittadino onorario. Per lui non c’è discussione: «abbiamo l’aria e gli spazi sconfinati, dopo il Covid ma anche dopo la crisi castanicola e la chiusura degli impianti, questa comunità è pronta a riscattarsi».

Con un Bike park con 6 tracciati ed oltre 30 chilometri che ci invidiano un po’ dappertutto, un centro di turismo equestre con 25 cavalli che può essere considerato tra i migliori della Campania, e una miriade di percorsi per l’escursionismo in quota, il Lago Laceno, non si limita ad essere considerata un’area cosiddetta “covid-free”, che poi non vuol dire alcunché, ma piuttosto un luogo dalle forti connotazioni a valore aggiunto che lo rendono unico in un territorio che fa da cerniera tra il Tirreno e l’Adriatico e si rivolge ad un bacino di oltre 10 milioni di potenziali avventori.

«Il Laceno non ha bisogno di stravolgere la sua fisionomia per adeguarsi alle norme del post pandemia. Ad esempio le strutture alberghiere, sorte tutte negli anni ‘70 erano già orientate alla banchettistica, pertanto presentano aree enormi che consentono il distanziamento sociale – spiega Rino Ferrante – A noi spetta solo mettere in campo genuinità, autenticità e semplicità in modo da offrire ciò che abbiamo assecondando i tempi delle stagioni. Insomma, non dobbiamo inventarci nulla. Dobbiamo solo cogliere questa grande opportunità e fare del senso di ospitalità ancora di più la nostra cifra stilistica».

Il Laceno si apre al mondo ma allo stesso tempo ancora per qualche anno lo dovrà fare non potendo contare su una delle sue maggiori attrazioni: la stazione sciistica. Gli impianti di risalita, inaugurati esattamente 50 anni e che dall’altopiano salgono sul Rajamagra ad oltre 1600 metri sul livello del mare, sono chiusi da tempo e con loro anche i rifugi in quota. Pertanto, il fascino del luogo risulta mutilato. «La stazione sciistica può vivere di luce propria e se tutto andrà come previsto, tra 24 mesi torneremo a mettere gli sci ai piedi. Ma il Laceno deve destagionalizzarsi» sottolinea l’assessore con delega al Turismo. «Siamo un sito a mille metri tra i più verdi della Campania. Se c’è una estate in Trentino non capisco perché non ci possa essere una fruizione tutto l’anno anche a queste latitudini. Dopotutto siamo baricentrici al Mezzogiorno. Ad un’ora da Napoli e a 90 minuti da Bari».

Bisogna, però, farsi trovare pronti, restare con i piedi a terra, pressare il Governo centrale affinchè venga completata la Lioni – Grottaminarda per ridurre le distanze ancora di più proprio con la Puglia e rivedere quella cultura turistica che realmente è sempre mancata e non ha permesso di sfruttare in pieno le infinite potenzialità del Laceno. In buona sostanza, bisognerà lavorare ad una immagine nuova, più funzionale e performante, in modo da spazzare via il decadentismo deludente degli ultimi tempi. Siamo all’anno zero. Quello che serve è una nuova proposta.

In attesa che una cultura imprenditoriale legata al turismo attecchisca maggiormente oltre i mille metri qualcosa si muove attorno ad un lago che, pur perdendo la sua connotazione lacustre con l’arrivo del primo caldo, mantiene intatto il proprio fascino. Come ad esempio il Bike Park inaugurato nel 2014 e che adesso rappresenta uno dei punti di forza per tutto il sistema Laceno, in grado di catalizzare l’attenzione dei turisti anche da fuori regione, con i suoi 6 tracciati per 30 chilometri dedicati gli amanti di cross country e all mountain.

Massimiliano Rogata, ingegnere di professione e progettista del Bike Park da allora si preoccupa insieme ad altri volontari di garantirne il funzionamento e mantenimento dei percorsi in attesa che l’impianto di risalita completi l’intera opera. «Il parco nasce per essere utilizzato in quota e da lì scendere in bici in modo da sfruttare la carica adrenalinica di ogni tracciato. Ora come ora è depotenziato». Nonostante tutto, però, il Bike Park è entrato di diritto nel circuito degli eventi patrocinati dalla Federazione ciclistica italiana in qualità di associazione sportiva dilettantistica.

«Stiamo cercando di capire se e come sarà possibile organizzare un mini-calendario tra agosto e settembre prima che la montagna cominci a diventare più aspra e meno accessibile per gli amatori delle due ruote» ci racconta Massimiliano che per 15/20 giorni all’anno smette i panni dell’ingegnere ad Avellino per salire in montagna con pala e pico per pulire i sentieri e rinnovare la segnaletica. «È un lavoro necessario che andrà fatto con cura finché non riusciremo ad inserire un quantitativo sufficiente di tracce gps che poi ogni biker potrà importare sul proprio navigatore – sottolinea Rogata – In montagna il sistema dei percorsi non può essere inteso come qualcosa di statico. Il bello sta proprio qui. L’importante è rispettare la montagna e prendersene cura ogni volta che serve».

Di questo rapporto intenso, quasi carnale con la montagna, i suoi sentieri, i suoi boschi di faggi e conifere, si nutrono i 25 cavalli, prevalentemente di razza quarter e paint, le più affidabili anche con i principianti, che la famiglia Monetta alleva da generazioni e che forse rappresentano l’attrazione più affascinante di tutto l’altopiano del Laceno.

«Dai 2 ai 99 anni facciamo andare a cavallo chiunque» ci racconta Michele Monetta che insieme alla moglie Salvatorina e ai figli Salvatore ed Elvira gestisce il Piccolo Ranch da 13 anni. «Ho fatto fare il battesimo della sella a pugliesi e lucani, ci vengono a trovare da tutta la Campania e da tante regioni del centro e del nord Italia perché l’esperienza di una escursione in montagna, tra i boschi, fino sopra la vetta, con o senza la neve, è una esperienza che pochi possono offrire». E c’è da crederci visto che in pochi minuti al cellulare di Salvatore arrivano diverse prenotazioni.

Nonostante le cose sembrino andare per il verso giusto, la sensazione che anche lui ci trasferisce è che il Laceno sia una Ferrari, costretta però a restare in garage per la scarsa intraprendenza degli imprenditori che sono rimasti sull’altopiano.

«L’errore è stato fatto 20 anni fa quando bisognava rinnovare le strutture ricettive e aprirsi ad un nuovo concetto di turismo. Qualche ristorante ha fatto dei lavori, ma sostanzialmente tutto è rimasto immutato. Se pensi che 10/15 anni fa sul Laceno si facevano 100 matrimoni all’anno, mentre adesso non viene più nessuno a sposarsi qui sopra. Negli anni 80 questo era un set cinematografico a 1050 metri».

Intanto il Piccolo Ranch è una delle poche strutture aperte tutto l’anno e la famiglia Monetta è tra le ultime ad abbandonare la zona lago a fine giornata, mentre le luci dei pochi ristoranti già aperti iniziano a fare capolino tra le fronde degli alberi e il sole tramonta all’orizzonte. È quello il momento propizio per scorgere il profilo di un cowboy che in sella al suo destriero si inerpica sulla montagna e sparisce tra i sentieri selvaggi dell’altopiano, sentinella di tutti i territorio interni che dai Picentini arrivano fino al mare.

Gerardo De Fabrizio (Tratto dal sito web Orticalab.it)

fonte Orticalab.it
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