Nei prossimi giorni, l’11 giugno, ricorrerà il 41.mo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. Morì a Padova, dove era stato colpito da un ictus durante un comizio per le elezioni europee di quell’anno. Le sue ultime parole furono rivolte ai compagni del suo partito: “Andate casa per casa…”.
Con lui se ne andava l’ultimo grande politico della storia repubblicana in Italia. Dopo di lui sarebbe cominciata l’epoca forse più buia, quella degli ultimi quarant’anni della storia d’Italia.
Credo che il modo migliore di ricordarlo sia trascrivere quanto aveva dichiarato in due occasioni: la prima, una ormai storica intervista del 1981, concessa al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari.
Non tutti la capirono. Moltissimi non l’hanno mai letta. Eppure forse bisognerebbe richiedere ai nostri attuali leaders politici di recitarla a memoria.
”I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le Università, la Rai TV, alcuni grandi giornali … Bisogna agire affinché la giusta rabbia dei cittadini verso tali degenerazioni non diventi un’avversione verso il movimento democratico dei partiti.”
Pensate che per queste parole Berlinguer fu accusato di “moralismo spicciolo”.
La seconda occasione fu quella che io considero il suo capolavoro politico: il cosiddetto “discorso sull’austerità”, pronunciato nel gennaio 1977 a Roma, ad un convegno su “Politica di austerità e di rigore”. Vale la pena di rileggerlo.
Non tutti lo capirono. Moltissimi non l’hanno mai neanche letto. Eppure forse bisognerebbe richiedere ai nostri attuali leaders politici di recitarlo a memoria…
“Da che cosa è nata, da che cosa nasce l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio? Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi organismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.
Ecco: in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità? L’austerità e per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Così concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.
Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore, senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.
Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa e l’espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.
Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e ai paesi che hanno finora dominato la scena mondiale.
Assai vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche, economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di quello che suole chiamarsi Terzo Mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In particolare, negli ultimi tempi, si è venuta precisando una tendenza verso alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista. Non sono stati e non sono solo i Kissinger (Segretario di Stato americano), ma anche gli Yamani (Ministro dell’Arabia Saudita) che hanno perseguito e perseguono una politica di austerità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento operaio dell’occidente.
Ma mentre dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo Mondo e tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi capitalistici. E’ questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.
Sullo sfondo di questa acuta conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici, mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.
Non è necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.
Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia “una trasformazione rivoluzionaria della società” o si può andare incontro “alla rovina delle classi in lotta”; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.
Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo Mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.”
In queste parole, di 48 anni fa, c’è tutta la Storia italiana e mondiale degli ultimi 48 anni, appunto.
Luciano Arciuolo
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