Ricordo di Antonio La Penna da parte di un umile allievo

di Paolo Saggese

Nel riflettere oggi, a pochi mesi dalla notizia della scomparsa del professore Antonio La Penna (Bisaccia, Av, 9 gennaio 1925 – Firenze, 9 aprile 2024), Accademico dei Lincei e tra i maggiori specialisti di storia della Letteratura classica, latinista di fama europea, docente presso l’Università degli Studi di Firenze e la Scuola Normale superiore di Pisa, da umile e indegno allievo, non posso che ringraziare la mia sorte per aver vissuto una parte entusiasmante del mio apprendistato filologico sotto le sue “ali” non protettive, severe e rigorose, ma con il tempo capaci di consentire un volo personale e originale. Per chi, come me, può vantare la comune origine altirpina, il nome di Antonio La Penna, insieme a quello di Dante Della Terza (nativo di Torella dei Lombardi), è stato familiare sin dagli anni incerti dei miei studi presso il Liceo classico “Francesco De Sanctis” di Sant’Angelo dei Lombardi.

Di Antonio La Penna si citavano le “gesta” di studente del Ginnasio inferiore del centro altirpino, i suoi compiti di italiano, le sue traduzioni rigorose, la sua memoria proverbiale, la sua capacità di studio inesausta. Già allora, mi sembra in seconda liceo, mi appassionai allo studio della filologia attraverso la scoperta di un fascicolo della rivista “Maia” dell’Università di Firenze e Genova, diretta dal professore, e contenente un suo saggio su Virgilio. L’anno successivo feci incetta di fotocopie di altri suoi scritti, in vista degli esami di maturità.

Antonio La Penna già allora – avevo diciassette anni – era divenuto il mio modello di riferimento, ingenuamente. Non potevo comprendere allora la grandezza del maestro. Per dieci anni sono stato alle sue lezioni presso la Facoltà di Lettere, in Piazza Brunelleschi, a Firenze (1985-1995), prima come studente dei suoi corsi, poi come laureando nei suoi seminari ristretti, quindi come dottore di ricerca in “Filologia greca e latina”.

I suoi seminari non erano caratterizzati dall’arte retorica, che pure a Firenze poteva annoverare tanti docenti validissimi – indimenticabili le lezioni di Mario Martelli e di Silvio d’Arco Avalle -, ma quelli che mi mettevano maggiore tensione, emotiva e intellettuale, erano tenuti da Antonio La Penna, che conservava ancora l’accento della sua Bisaccia, pur essendo fuggito dall’Irpinia a 16 anni, quando si iscrisse, enfant prodige, alla Normale di Pisa.

Antonio La Penna aveva conservato la rudezza del contadino del Formicoso, di Oscata, una rudezza persino esibita tra l’eleganza del fiorentino forbito dell’accademia: sembrava quasi che la civiltà contadina lo avesse forgiato nell’anima ancor più delle 10 o 15 ore giornaliere di studio, di ricerca, di riflessione. Insieme a questo, il suo distaccato pessimismo era derivato anche dall’attenta riflessione sui classici, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Petronio, Tacito tra gli altri.

In gioventù aveva coltivato l’utopia del comunismo, che ha sempre conservato, ma ormai con gli anni era arrivato alla constatazione che l’utopia fosse irrealizzabile o comunque fosse lontana dalla sua realizzazione. Le matrici ideali del suo metodo furono il magistero desanctisiano, il magistero filologico della scuola tedesca e di Giorgio Pasquali, l’impostazione marxista e gramsciana.

Da un lato egli seppe studiare e interpretare, ricostruire e rendere visibile l’eleganza estetica classica, dall’altra acquisì un rigore filologico estraneo alla tradizione desanctisiana, infine seguì Gramsci nella necessità di studiare la letteratura all’interno di un contesto storico di riferimento, di ritenere la stessa letteratura strumento di comprensione del passato, nonché di conoscenza della società tutta, dei conflitti sociali, dei gusti, degli ideali, dei valori di un’epoca. Era insomma consapevole che un poeta o uno storico non potesse essere studiato, crocianamente, senza tener conto dell’uomo, del mondo, in cui visse.

Egli non era un idolatra della classicità, non visse con questo mito. Ma rimase sempre convinto che, seppure la classicità non fosse depositaria di valori assoluti o di modelli cristallini, superiori ai nostri, essa fosse in grado sempre di fornire una traccia, per noi imprescindibile, per conoscere noi stessi e per comprendere la nostra vita, persino il nostro futuro. In uno studio edito più volte, che parte dal volume del filologo russo Taddeo Zielinski (L’antico e noi, 1903), Antonio La Penna riflette sul significato dell’antichità classica nel corso dei secoli sino alle soglie del nuovo millennio. Con estrema lucidità, rigettando subito idealizzazioni e sopravvalutazioni della funzione del greco e del latino come discipline regine per potenziare intellettualmente i giovani, rigettando l’idea di una superiorità letteraria o di pensiero degli antichi sui moderni, Antonio La Penna sostiene comunque l’imprescindibilità dello studio del passato per comprendere il pensiero, la letteratura, l’arte, la storia, tutto ciò che rappresenta il mondo in cui viviamo. Scrive, provocatoriamente: “Per liberarci veramente dei Greci e dei Romani dovremmo mutare radicalmente i nostri rapporti col passato: considerare storia e tradizione come pesi morti di cui bisogna sbarazzarsi, distruggere non solo il provvidenzialismo storico di cui lo storicismo si era liberato, ma la storia stessa. […] Si può distruggere la coscienza storica, non la storia, che necessariamente ci condiziona, necessariamente ne restringe l’ambito. La distruzione della coscienza storica serve alla rassegnazione: è la rinuncia al mutamento. È paradossale, ma vero, che la distruzione della storia si concilia sia con l’utopismo sia con l’adattamento alla palude” (Antonio La Penna, Io e l’antico, conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta editori, Pisa, 2019, pp. 172-173). Ma allora cosa rappresentano i classici per noi, oggi? Ecco la risposta dello studioso: “Semplificando ancora una volta, direi che l’antichità classica, se non ci offre più modelli validi, se non è più il tempio dei valori eterni o degli archetipi, resta, però, nel nostro orizzonte immediato, che è quello europeo, nell’orizzonte in cui ci muoviamo quando dobbiamo affrontare alcuni problemi di fondo: non ci troviamo oracoli a cui chiedere risposte, ma ci rivela le nostre origini, non tanto vicine da essere sentite come le radici che ci nutrono, abbastanza vicine per chiarire fino in fondo la nostra situazione e per essere coinvolte nella soluzione di problemi importanti della nostra vita” (Io e l’antico, pp. 171-172).

Antonio La Penna ha terminato il suo percorso di vita, ma certo non morirà. “Non omnis moriar”, possiamo ripetere. I suoi libri (Orazio e l’ideologia del principato, Sallustio e la rivoluzione romana, L’impossibile giustificazione della storia, tra gli altri) sono un patrimonio dell’umanità e sopravviveranno alle generazioni. Alcuni suoi saggi hanno dato piena comprensione di alcuni classici e saranno essi stessi un classico imprescindibile.

Possiamo dire, senza tema di smentita, che dopo Francesco De Sanctis Antonio La Penna è stato l’intellettuale più importante che l’Irpinia ha donato all’Italia e alla cultura mondiale. Con lui tramonta un’epoca. Dopo le morti di Dante Della Terza, di Antonio Maccanico, di Ciriaco De Mita, di Gerardo Bianco (grande amico di La Penna), di Aldo Masullo, di Ugo Piscopo, di Antonio La Penna, il Novecento irpino è definitivamente tramontato.

* Qui si pubblica una versione ampliata dell’intervento, che fu letto nella Sala del Rettorato di Firenze (Piazza San Marco) il 7 giugno 2024, in occasione di una giornata commemorativa del prof. Antonio La Penna.

Paolo Saggese

(da Fuori dalla Rete novembre 2024, anno XVIII, n. 3)

Potrebbe piacerti anche
Commenti

Ti invitiamo a reastare in tema, essere costruttivi ed usare un linguaggio decoroso. Palazzo Tenta 39 si riserva comunque il diritto di allontanare le persone non adatte a tenere un comportamento corretto e rispettoso verso gli altri.