Se Roma piange, Bagnoli non ride

di Alejandro Di Giovanni

Esistono due tipi di persone: quelli che le cose le pensano, e le dicono a bassa voce, facendosi molto bene i fatti propri (che poi non è nemmeno così), così da salvaguardare i rapporti umani di convivenza e convenienza, di simpatia e finto rispetto, e chi non ha il timore di dire ciò che pensa, denunciando e facendo sentire il proprio pensiero critico sempre, a voce alta, perché in lotta perenne per i valori che da sempre lo animano e lo guidano.

Nel mio paese, conosco quasi esclusivamente persone appartenenti alla prima categoria. Dato che il chiacchiericcio di piazza rimane spesso confinato tra gli alberi e gli amici del caffè, bisogna rendere bene l’idea di quello che una comunità sente e magari non dice ad alta voce. La persona che appartiene alla seconda categoria, crede sempre che un atto di dissenso e di rottura possano generare consapevolezza e rinnovamento, egli attua una rivoluzione ogni volta che dice di no o che esprime liberamente il suo pensiero, una rivoluzione che sottende sempre un sentimento d’amore.

E allora stare a guardare così, in maniera sottaciuta, mi renderebbe complice delle colpe del mio tempo. Archiviata la funesta tornata elettorale per il governo del Paese, che ha partorito un orribile mostro a due teste (ma che in realtà dimostra di non averne nemmeno una), ci ritroviamo al cospetto di forze populiste antisistema e antipolitiche quasi eversive, che hanno raggiunto il successo grazie al fascino e alla seduzione della retorica sovranista, antieuropea, antiscientifica, razzista e demagogica. Roma piange. Ne avrà per molto.

A distanza di pochi mesi, tra pochi giorni, ci toccherà votare per rinnovare le cariche amministrative del nostro comune, Bagnoli Irpino. Qui, a differenza delle elezioni per il governo nazionale, non ci sono schieramenti politici contrapposti, nessuna omogeneità di identità e valori accomuna i candidati delle liste, messi lì come in un sorteggio di un torneo di calcio amatoriale del paese. Le liste sono due, ed entrambe riflettono molto fedelmente la condizione effettiva di un paese senza più pretese, spaesato e privo di ogni retaggio identitario politico e culturale.

La nota positiva, l’unica che si può intravedere, è la mancata ricandidatura del sindaco uscente Filippo Nigro, protagonista in negativo della più fallimentare amministrazione comunale del paese a memoria di tre generazioni, che lascia alla successiva un cumulo di macerie da paese quasi terremotato.

Scorrendo le due liste che si contendono il palazzo di via Roma, a prescindere, viene comunque e immediatamente voglia di dire grazie a chi ha deciso di partecipare con impegno e coraggio, verrebbe da dire che apprezzo più loro che chi ogni mattina, appoggiato ad una pianta in piazza, continuamente dice cosa si dovrebbe fare per il paese, mentre in concreto non riesce a far altro che ordinare un altro spritz (me compreso quando capita).

Chiarito questo, io credo che bisogna essere seri e responsabili, quando si tratta di materie tanto delicate, che tanto condizionano la vita delle singole persone e della comunità intera. Alla visione della lista del candidato sindaco Marilena Vivolo, inviatami su WhatsApp, ho creduto immediatamente ad uno scherzo. Quando poi si è ufficializzata, ho creduto ad una provocazione. Ora non so più che pensare, se non al fatto che rispetto a cinque anni fa nulla è cambiato, e che le lezioni (ed elezioni) del passato passano sulle persone come passa una pubblicità in tv che non lascia traccia. Avevo scritto dell’Accademia platonica come metodo di reclutamento delle eccellenze per i governanti nel precedente articolo, certo non mi aspettavo questo, ma questa composizione siffatta che si offre, è una offesa resa a chi la riceve. Se questo paese vuole tornare ai fasti di un tempo, non deve permettere a degli irresponsabili di presentare queste proposte, e l’opinione non investe i candidati sedotti (e magari poi abbandonati), sia chiaro, investe bensì i registi, gli architetti, gli ideatori, che mostrano ancora una volta di non avere nulla a che fare col concetto nobile di politica, di quella pratica che presuppone capacità, responsabilità e onestà per il bene di tutti. Ora non si può più, ora si deve dire.

La seconda immagine che mi giunge su WhatsApp fotografa la composizione dell’altra lista capitanata da Teresa Di Capua, e consolida un mio timore, un apparentamento innaturale e immotivato tra fazioni politiche diverse e gente diversa che improvvisamente si ritrova assieme. Parliamo di gente che “se ne è data” per anni di santa ragione, con valori e storie diverse, inconciliabili (oppure no?): come assistere ad un gemellaggio tra juventini e interisti, per intenderci. Qui, se vogliamo, più che delusione, prevale la rabbia. Sui nomi e sul silenzio degli innocenti malcapitati in lista, si sospende il giudizio per la prova dei fatti, se ci sarà. Anche qui, però, io debbo evidenziare delle irresponsabilità, qui di carattere identitario, storico, di coerenza, di valori. Lista oramai civica anche questa, include gente del Pd, del Movimento5Stelle, dell’ex Udc e forse qualcuno di destra. Il punto non è questo, anche se potrebbe già esserlo, il punto è un altro. Alla base dello sconcerto da parte di una certa sinistra e di una larga fetta dell’opinione pubblica, c’è l’alleanza fantastica tra anti-demitiani e demitiani, e probabilmente una finzione scenica di un atto necessario per poter presentare una lista altrimenti non presentabile nei numeri. I demitiani sono, per intenderci, quelli che hanno amministrato con Filippo Nigro, tanto avversati dagli attuali alleati anti-demitiani, che nel 2013 sono stati i protagonisti avversari di una campagna elettorale fatta di fango e odio come mai si era vista in precedenza. Certo, chi non cambia mai idea non cambia mai nulla, ma qui si supera la barriera del campo delle idee e si atterra nel campo del controsenso logico.

Se passo tutta la vita a battermi per dei valori, che sono i valori della giustizia sociale, della lotta alle diseguaglianze e dell’onestà, io non posso per mera strategia elettorale allearmi con chi ha calpestato e calpesta continuamente quei valori. Se la strategia elettorale mi dovesse portare alla vittoria, io perderei comunque, perché ho perso ciò per cui ho sempre combattuto e creduto, ho vinto una battaglia senza onore e, contemporaneamente, ho perso la mia guerra. Vincere allora non è tutto, a volte si vince anche perdendo. Essere “anti”, contro quel modo d’essere, battersi contro ciò che rappresenta quel qualcosa, fa di quella avversione la mia essenza identitaria e la mia battaglia di vita, realizza il mio essere, secondo logica e buon senso non dovrei stringerci un patto diabolico di governo: noi siamo sempre in contrapposizione a qualcosa, possiamo definirci per paragone e qualità che l’altro non ha o ha più di noi. Sono alto rispetto a qualcuno, sono basso rispetto a qualcun altro. Se sono per la pace, sono contro la guerra. La caoticità del momento politico generale, dello smarrimento e del disorientamento dei valori fondanti del pensiero politico e della società, si riverberano nelle azioni delle persone che si approcciano alla politica come mercanti in fiera senza passione o identità che, casualmente calati nella mischia della contesa, occasionalmente cercano di definirsi politicamente, una condizione politica effimera e precaria quindi, che riflette quella dell’individuo post-moderno errabondo, confuso e smarrito.

Viviamo in totale anomia, in una società che fa della spinta al successo e al benessere economico una necessità sociale, una società che fa della vittoria un valore assoluto, l’unico che conti in fondo, e che legittima quindi gli esclusi che non hanno i mezzi per raggiungerla, ad adoperare qualsiasi espediente pur di ottenere quel successo (o vittoria). La società non perdona il fallito, non perdona il perdente. Non perde mai chi non si arrende, non perde mai chi è libero. Bagnoli non ride.

Alejandro Di Giovanni

(da Fuori dalla Rete, Maggio 2018, anno XII, n. 3)


fonte Fuori dalla Rete, Aprile 2018, anno XII, n. 3
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