Un mito “vero”: Enrico Berlinguer

di Luciano Arciuolo

Tra pochi giorni ricorrerà il trentasettesimo anniversario della morte e dei bellissimi funerali di Enrico Berlinguer, un mito della politica italiana, del quale i leaders di oggi non sono degni neanche di pronunciare il nome. Anche perché viviamo in un’epoca nella quale se insegni come non pagare le tasse, se hai un centinaio di migliaia di euro di debito col fisco, allora ti fanno ministro delle Finanze… e ho detto tutto. Un’epoca nella quale ogni “sarchiapone”, come li chiama Alejandro, si sente esperto di economia, finanza e sociologia.

Ma io, qui, voglio ricordare la figura e, come si dice, le “opere” di quell’uomo, minuto ma gigantesco.

Nato nel 1922 da una famiglia borghese ma antifascista di Sassari, crebbe in un ambiente moderatamente progressista. Però nel 1936, a soli quattordici anni, aderì a quel Partito Comunista che ai suoi occhi, evidentemente, era l’unico, serio baluardo contro la barbarie fascista e nazista che stava inondando l’Europa di violenza.

La Sardegna era lontana dalle lotte partigiane, così il giovane Enrico ne restò fuori ma, dopo la Liberazione, fece rapidamente strada nel Partito e, nel 1972, alla morte di Luigi Longo, storico comandante partigiano e segretario comunista dalla scomparsa di Togliatti, fu sorprendentemente eletto Segretario del PCI.

Timido, introverso, quasi schivo, aveva un cattivo rapporto con i doveri mediatici che la carica gli imponeva. Ma questo non significava debolezza di carattere. Anzi.

Nel Settembre del 1973 un colpo di Stato, appoggiato dagli Stati Uniti, che consideravano l’America del Sud come il proprio “cortile di casa”, aveva rovesciato il governo di sinistra democraticamente eletto in Cile, soffocando letteralmente nel sangue ogni tentativo di opposizione.

Questo avvenimento colpì particolarmente il cinquantenne segretario comunista, che cominciò a parlare di “compromesso storico”, incontro tra le forze cattoliche, laiche e comuniste italiane, per dare al nostro paese un periodo di sviluppo e di crescita democratica.

La proposta, naturalmente, colpì non solo e non tanto gli avversari, quanto gli uomini del suo partito che impiegarono un bel po’ prima di assorbire la botta e la sorpresa.

Ma Berlinguer andò avanti come un treno, sulla nuova strada. Avviò infatti un prolifico contatto con esponenti del modo cattolico; partecipò alle marce per la pace Perugia-Assisi; candidò come indipendenti nelle liste del PCI i tanti cattolici che condividevano le sue idee.

Contemporaneamente egli prendeva sempre più nettamente le distanze dal comunismo sovietico che, dopo la repressione dei moti di Ungheria del 1956 e della Primavera di Praga del 1968, era diventato un peso sempre più insostenibile per i partiti comunisti dell’Europa Occidentale. Con i partiti fratelli della Spagna e della Francia diede vita al cosiddetto “eurocomunismo”, via europea al socialismo, e a nuovi rapporti con i partiti socialdemocratici di Germania e Inghilterra. Qualche anno più tardi avrebbe dichiarato, dalla tribuna del congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che la Rivoluzione d’Ottobre aveva ormai esaurito la sua spinta propulsiva. Insomma il comunismo russo non era più un modello per chi viveva in Occidente. E, quasi contemporaneamente, ebbe a dire che si sentiva molto più sicuro sotto l’ombrello della NATO che sotto l’egida del Patto di Varsavia.

Era troppo per il suo Partito Comunista, composto ancora da tanti “compagni” cresciuti nel mito dell’URSS e di Stalin? Si, era decisamente troppo. Molti non lo capivano. Non solo: a sinistra del PCI nacquero tanti gruppi che ne contestavano le idee. Ma, se in Italia è stata possibile la sopravvivenza di un Partito prima Comunista e poi post-comunista, è stato anche grazie alle sue intuizioni e ai suoi strappi, che hanno dato a quel movimento la credibilità necessaria per evitare la fine fatta dai partiti omologhi negli altri paesi dell’Europa Occidentale.

Berlinguer però è stato molto altro, non solo per i comunisti del “bel paese”.

In una ormai storica intervista del 1981, concessa al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, egli parlò, forse per la prima volta, di “questione morale” in termini profetici, considerando che quelle dichiarazioni sono vecchie di 40 anni:” I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le Università, la Rai TV, alcuni grandi giornali … Bisogna agire affinché la giusta rabbia dei cittadini verso tali degenerazioni non diventi un’avversione verso il movimento democratico dei partiti.”

Pensate che per queste parole Berlinguer fu accusato di “moralismo spicciolo”.

Però quello che io considero il suo capolavoro politico fu il cosiddetto “discorso sull’austerità”, pronunciato nel gennaio 1977 a Roma, ad un convegno su “Politica di austerità e di rigore”. Vale la pena rileggerlo.

“Da che cosa è nata, da che cosa nasce l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio? Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.

L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi organismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione dell’individualismo più sfrenato, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.

Ecco: in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità? L’austerità e per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Così concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.

Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore, senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.

Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa e l’espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.

Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e ai paesi che hanno finora dominato la scena mondiale.

Assai vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche, economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di quello che suole chiamarsi Terzo Mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In particolare, negli ultimi tempi, si è venuta precisando una tendenza verso alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista. Non sono stati e non sono solo i Kissinger (Segretario di Stato americano), ma anche gli Yamani (Ministro dell’Arabia Saudita) che hanno perseguito e perseguono una politica di austerità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento operaio dell’occidente.

Ma mentre dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo Mondo e tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi capitalistici. E’ questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.

Sullo sfondo di questa acuta conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici, mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.

Non è necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.

Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia “una trasformazione rivoluzionaria della società” o si può andare incontro “alla rovina delle classi in lotta”; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.

Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo Mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.”

C’è tutto il futuro del 1977, in questo discorso. Il futuro che lui non vide (morì nel giugno del 1984 in seguito ad un ictus, che lo colpì durante un comizio), ma che noi abbiamo avuto modo di osservare.

C’è la crisi di un modello di sviluppo e l’ambientalismo; c’è la critica al consumismo sfrenato; c’è la finanziarizzazione dell’economia che ha provocato i disastri che conosciamo; c’è la previsione che la povertà dei paesi esclusi dal benessere avrebbe prodotto disastri epocali: penso alle migrazioni bibliche e al terrorismo, piaghe del mondo.

Quel discorso non fu capito, né a sinistra né a destra. Qualcuno ci ironizzò anche sopra. Probabilmente quel discorso non fu capito perché non poteva essere capito: era quaranta anni avanti alla comune capacità di comprensione.

Ai suoi funerali, nel Giugno del 1984, c’ero anch’io. Una giornata che, poi, mi hanno raccontato come torrida. Io non me ne accorsi …

Luciano Arciuolo

(da Fuori dalla Rete, Giugno 2021, anno XV, n. 3)

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