Incarnare, scegliere e difendere simboli: in memoria di Gerardo Bianco

www.isimbolidelladiscordia.it
Per chi si riconosce, in tutto o in parte, nella schiera dei #drogatidipolitica la notizia della morte di Gerardo Bianco non può non provocare profonda tristezza e, soprattutto, un grande senso di vuoto, anche per chi ha professato o semplicemente considerato con interesse idee diverse dalle sue. Non si tratta di parole retoriche o puramente rituali: ci sono vari motivi per capire che la scomparsa di questa figura segna un passaggio pregno di significato e, in un certo senso, il tramonto di un’epoca.
La lettura più semplice può venire dall’età di Bianco, classe 1931 (dunque 91 anni) e dal suo cursus honorum, limitando lo sguardo alla presenza nelle istituzioni: deputato per ben nove legislature (dal 1968 al 1994 e di nuovo dal 2001 al 2008), europarlamentare per un mandato (1994-1999, il periodo per lui più importante come si vedrà), vicepresidente della Camera (1987-1990) e anche ministro della pubblica istruzione – un’etichetta che sa immediatamente di Prima Repubblica, pur essendo durata anche nei primi anni della Seconda – per una manciata di mesi (luglio 1990 – aprile 1991), nella seconda metà del governo Andreotti-sexies (quello costituito dopo l’unico esecutivo guidato da De Mita, punto su cui si dovrà tornare tra poco). Basterebbe questo a dare conto del vuoto lasciato nella politica italiana da Bianco, che negli ultimi anni della sua vita è stato prima presidente, poi presidente emerito dell’Associazione Ex Parlamentari della Repubblica.

Sembra altrettanto ovvio rilevare che sette di quelle nove legislature a Montecitorio Bianco le ha trascorse venendo eletto e operando sotto il simbolo della Democrazia cristiana, diventando capogruppo per due volte (la prima volta, nel 1979, addirittura contro il volere del partito, che gli avrebbe preferito Giovanni Galloni, ma con il sostegno dei tanti che erano stati eletti ma di incarichi non ne avevano, passati alla storia come “peones”). Oltre che essere democristiano, Gerardo Bianco era anche irpino, per l’esattezza di Guardia Lombardi, un paese che oggi dista mezz’ora scarsa da Nusco, luogo indissolubilmente legato a Ciriaco De Mita, altro democristiano inossidabile, che prima di scomparire lo scorso 26 maggio di legislature ne aveva assommate addirittura undici (più altri mandati da europarlamentare). Fa una certa impressione rendersi conto che i due personaggi che, pur essendo profondamente diversi tra loro, più hanno rappresentato l’Irpinia politica (e democristiana, il che sembrava quasi un sinonimo) se ne sono andati a sei mesi di distanza l’uno dall’altro e nello stesso ordine con cui sono entrati in Parlamento (prima De Mita, approdato alla Camera nel 1963, con la IV legislatura, e poi Bianco, portato a Montecitorio proprio dal dominus di Nusco): a poter dare nuova linfa al filone politico-vintage dell’Irpinia Paranoica (sperando che i titolari della pagina ci perdonino la citazione) resta ormai giusto Gianfranco Rotondi, avellinese doc, che – come ha raccontato lui stesso nella Variante Dc, senza risparmiare episodi gustosi – di Bianco è stato a lungo allievo diretto (fino al 1995), per cui gli spetta un compito tutt’altro che semplice.

Con Gerardo Bianco, simpaticamente noto anche come “Jerry White” – come se fosse stato un eroe del rock, del blues o della disco, idea piuttosto insolita associata a un fine latinista quale è stato, dentro e fuori dall’accademia – scompare però soprattutto anche una delle figure chiave della fine dell’unità del partito dei cattolici italiani, nonché colui che accettò di incarnare un ruolo di guida in una delle fasi più delicate per l’area moderata, centrista e cristiana che fino a pochi anni prima era stata determinante nella vita politica del Paese. Quando nel 1994 la Dc, sconquassata dallo scandalo delle tangenti, decise di lasciare da parte il proprio nome e di chiamarsi di nuovo Partito popolare italiano (perdendo per strada alcune anime, soprattutto il Ccd che guardava verso il centrodestra), Bianco scelse di non ripresentarsi alle elezioni politiche, salvo poi essere uno degli otto eletti del Ppi alle europee di giugno (al Sud con lo scudo crociato ce la fecero in due soltanto: lui e Giampaolo D’Andrea).

Proprio mentre Bianco era formalmente lontano dal Parlamento italiano, nel suo Ppi scoppiò il finimondo. Non era ancora iniziata la primavera del 1995, ma la semplice idea che Rocco Buttiglione, segretario da pochi mesi, pensasse davvero di portare il partito nel centrodestra (per le regionali di quell’anno, ma anche in seguito) aveva profondamente scandalizzato gran parte dei popolari. L’11 marzo Buttiglione fu sfiduciato in minoranza in consiglio nazionale ma rifiutò di dimettersi; il 16 marzo coloro che avevano votato contro il segretario – incluso Ciriaco De Mita – elessero alla guida del partito proprio Gerardo Bianco. Fu quello il primo vero passaggio in tribunale della storia ex democristiana (sarebbe capitato, in seguito, un numero imprecisato di altre volte); il giudice sospese l’elezione di Bianco, ritenendola illegittima, ma dichiarò comunque valido il voto che aveva impedito a Buttiglione di attuare la sua linea politica. Forse non c’era una poltrona per due, ma sicuramente c’erano due partiti in uno e la situazione non era più sostenibile: “Un giorno noi democristiani ci toglieremo il sudario e risorgeremo come Lazzaro”, disse Bianco all’inizio della diaspora (come riportato allora da Riccardo Luna sulla Repubblica), ma intanto l’unica soluzione possibile era separare le strade di chi era arrivato a contendersi fisicamente piani e stanze della sede storica a palazzo Cenci Bolognetti in piazza del Gesù.

La separazione fu innanzitutto simbolica, visto che bisognava trovare in fretta un fregio da far stampare sulle schede (il contrassegno ufficiale, secondo il giudice, restava nelle mani del segretario Buttiglione, pur sfiduciato): su questo sito si è raccontata nei dettagli la storia che portò Bianco, Giovanni Bianchi e Guido Bodrato, con il contributo essenziale di Silvia Costa e Giuliano Bianucci (che materialmente seguì la nascita del simbolo) a scegliere il gonfalone per il nuovo corso dei Popolari. In seconda battuta, oltre a ufficializzare la spartizione delle insegne per quella “insanabile divisione insorta” nel Ppi, si dovettero separare strutture, spazi, apparati e patrimoni: c’era anche la firma di Gerardo Bianco (oltre a quella di Rocco Buttiglione) su quel foglio dattiloscritto a Cannes il 24 giugno 1995, a margine di un ufficio politico del Ppe – che non ne poteva più di quella lite fratricida – che si proponeva di affrontare quella “dolorosa lacerazione con uno stile di rispetto reciproco, di tolleranza e di cristiana fraternità”. Nel tentativo di farlo, ci si accordò ufficialmente sulla divisione dei segni di identificazione: Bianco non avrebbe contestato a Buttiglione l’uso dello scudo crociato (che sarebbe stato impiegato dal Cdu), Buttiglione non avrebbe conteso a Bianco l’impiego del nome “Partito popolare italiano”. Il passaggio fu davvero doloroso, per il peso della lacerazione e perché non tutti coloro che erano vicini a Bianco pensavano che lasciare agli avversari lo scudo crociato di sempre fosse stata la scelta migliore; Gerry White, a chi glielo chiedeva, si diceva sempre convinto di aver ottenuto la parte migliore, ma non era riuscito a convincere tutti.

Confermato alla segreteria del Ppi, Bianco l’avrebbe lasciata nel 1997 a Franco Marini; quando nel 2002 il suo successore, Pierluigi Castagnetti, decise di concorrere alla nascita di Democrazia è libertà – La Margherita (che si era già presentata come lista nel 2001), Bianco – rieletto sotto le insegne dell’Ulivo a Fuorigrotta – espresse vari dubbi sulla scelta di costituire un partito unico, cercò fino all’ultimo di evitare l’uscita di scena dei Popolari, poi non insistette oltre. Quando l’ultimo congresso del Ppi (tenutosi a Roma, al Palacongressi dell’Eur, dall’8 al 10 marzo 2002) scelse di sospendere le proprie attività, di fatto “congelandosi” senza sciogliersi, Bianco uscì dalla sala “per non dire di no” (come scrisse Umberto Rosso sulla Repubblica), ma continuò a far parte – oltre che dell’assemblea “dei 58” che avrebbe dovuto continuare a rappresentare i Popolari – del gruppo della Margherita alla Camera, pur professandosi indipendente.

Volle restare senza gruppo, invece, quando all’inizio del 2008 la maggioranza della Margherita decise in modo concreto di andare verso il Partito democratico, al quale ovviamente Bianco non aderì mai: lo fece con il suo stile, indirizzando già a novembre 2007 una lettera delicata e sentita ai suoi non-compagni di avventura e facendo un passo di lato. In effetti, nel 2004, era stato con Alberto Monticone e Lino Duilio tra i fondatori politico-morali di Italia popolare, movimento che si poneva in continuità ideale con il pensiero ideologico popolare sturziano, nel tentativo di tutelarne il valore sulla scena politica. Di quel movimento, che poi avrebbe adottato come emblema proprio il gonfalone con contorno dello scudo che era stato ideato nel 1995, Bianco divenne presidente onorario.

L’ultimo emblema cui si ricorda legato l’ex segretario Ppi fu quello della Rosa per l’Italia, tentativo portato avanti soprattutto dagli ex Udc Bruno Tabacci e Mario Baccini (insieme all’ex Cisl Savino Pezzotta) di costruire un soggetto politico centrista, slegato dai poli. La permanenza di “Gerry White” da quelle parti, di fatto, durò pochi giorni, il tempo di rendersi conto che era impossibile correre da soli ed era opportuno unirsi all’Udc per presentare liste comuni, salvo poi contestare il modo in cui aveva gestito le candidature campane dell’Udc un nuovo arrivato nel partito, che rispondeva al nome di Ciriaco De Mita. Da quel momento nessun soggetto politico ha più annoverato Bianco tra i propri iscritti o promotori.

Chi scrive ha nella mente un ricordo preciso e grato di Gerardo Bianco. Il 6 giugno 2014 c’era anche lui nella sala Perin del Vaga dell’Istituto Sturzo a Roma, insieme a Giampiero Gamaleri e al segretario generale dell’istituto Giuseppe Sangiorgi, a presentare due libri rilevanti per la storia dell’emblema che ha caratterizzato prima il Ppi di Sturzo, poi la Dc e i partiti che se ne sono contesi l’eredità: Lo scudo crociato di Girolamo Rossi e Per un pugno di simboli del sottoscritto. A distanza di oltre otto anni, riascoltare quella presentazione e la testimonianza di Bianco rappresenta un’occasione per ricordare e non smettere di cercare, sempre con stile. Faticava ad accettare la mancanza di stile e misura Gerardo Bianco: quando, nel 1994, la Lega Nord aveva ottenuto gli spazi della Camera che erano stati del Ppi – ex Dc e si pensò d’imperio di sostituire l’intitolazione della sala riunioni (togliendo il nome di Moro, preferendogli l’autonomista Bruno Salvadori), Bianco era stato lapidario (“Con il piglio di un aspirante nuovo barbaro l’onorevole Maroni dichiara che occuperà e ribattezzerà l’aula Aldo Moro […]. Non possiamo contare sul buon gusto dei leghisti, temiamo invece per la loro guapperia visto che si sono già distinti per l’arroganza che appare sempre meno da allegra brigata e sempre più da surrogato della politica che appunto non c’è”).
Bianco non aveva apprezzato neanche le pressioni delle piazze, certo non immotivate ma spesso inurbane e in rovinoso equilibrio tra populismo e qualunquismo, affinché la politica si autoriformasse in modo robusto, eliminando gli elementi che l’avevano fatta apparire una “casta”: erano appunto i tempi del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella La casta, così come del primo V-Day officiato da Beppe Grillo, con modi e toni ben noti. Giusto una decina di giorni dopo, il 19 settembre 2007, in aula proprio Bianco ebbe parole di fuoco nei giorni in cui fuori dal Palazzo si rumoreggiava contro i vitalizi (e non solo): “la nostra agenda non può essere dettata da istrioni della suburra. Abbiamo il dovere di discutere con chiarezza, di affrontare i temi in modo adulto, di dare risposte forti al popolo italiano, ma dobbiamo farlo con la dignità di chi agisce in base al principio di rappresentanza. La invito, signor Presidente, a difendere l’istituzione. […] Dobbiamo dare ascolto a ciò che accade nella piazza, ma non possiamo seguire la piazza. La nostra è ancora una Repubblica parlamentare, non è la Repubblica dei girotondi e degli ascolti a chi protesta. Le Repubbliche guidate da Masaniello prima o poi finiscono in tirannidi, nascoste o vere”. Sarebbe bene non dimenticarlo del tutto, senza pensare che Masaniello abbia un’unica faccia o stia da una sola parte: sarebbe il modo migliore per ricordare e onorare Gerardo Bianco.

 

http://www.isimbolidelladiscordia.it/2022/12/incarnare-scegliere-e-difendere-simboli.html

gerardo biancoi simboli della discordiapoliticasimboli