Intervista al poliedrico artista bagnolese Martin Di Lucia

di Federico Lenzi

Vista l’incomprensione sul significato del corto “Sounds of Silence”, abbiamo deciso d’incontrare di persona l’autore Martin Di Lucia. Ne è nata un’interessante conversazione, nella quale abbiamo affrontato insieme svariate tematiche. Da “Santa Nesta di Sangue” a “K”, abbiamo ripercorso passo dopo passo l’evoluzione del pensiero e delle produzioni di Martin. Non è mancato anche un passaggio sul suo rapporto con l’Irpinia e sulle produzioni in cantiere. Insomma, non aggiungiamo altro e vi auguriamo una buona lettura!


Come è nata l’idea di “Sounds of Silence”?

L’idea è nata ricercando come i portatori di handicap sopperiscano all’assenza di un determinato senso; pensando alla figura retorica della sinestesia (l’accostamento di due parole appartenenti a due piani sensoriali diversi) ho provato ad immaginare come un non udente veda i suoni. Da qui la tag line del corto “Hear the silence. See the sounds” (Ascolta il silenzio. Vedi i suoni).

Il protagonista si sveglia e l’unico suono che sente è un fischio. Cosa rappresenta?

Il fischio nei momenti iniziali del corto rappresenta ovviamente il silenzio, l’assenza totale di suoni; è il modo con cui i normo-dotati raffigurano il silenzio; ho pensato fosse il miglior espediente con il quale far empatizzare lo spettatore con il protagonista.

Però nel momento in cui indossa le cuffie questo fischio fastidioso scompare, lasciando il posto ad un flusso sonoro che muta e si evolve durante i vari momenti della giornata. Che significato hanno queste cuffie? Sembrano quasi essere loro le protagoniste in un certo senso…

Dato che il protagonista non conosce i veri suoni del mondo, ciò che sente dopo aver indossato le cuffie, (il passaggio di una macchina, una persona che gli parla, un cane che abbaia), è in realtà nella sua testa; è egli stesso a comporre i “suoni che vede” a seconda delle emozioni che prova e delle situazioni che incontra. Allo stesso tempo usa le cuffie per celare al mondo il suo handicap; alla fine infatti scopriamo (SPOILER) che le cuffie non sono collegate ad alcun dispositivo, ma sono soltanto una “maschera” (sinestesia visiva applicata all’apparato uditivo) per sembrare un ragazzo “normale”.

In questo cortometraggio notiamo la presenza di giovani attori alle prime armi, come è stato dirigerli nella realizzazione delle riprese?

Come è sempre stato con tutti i corti (ride). Dieci anni fa come oggi, per me girare cortometraggi è un modo come un altro per esprimermi e per fare ciò mi sono sempre avvalso della collaborazione e partecipazione di amici e conoscenti, quasi tutti alla prima esperienza recitativa, ma che si sono sempre mostrati entusiasti nel prendere parte a questi progetti. Non sono un regista, non ho studiato per questo, quello che cerco è il puro e semplice realismo dell’azione e non la teatralità, per questo il mio lavoro di “direzione” degli attori si limita a dire “fa’ come se lo stessi facendo davvero nella vita di tutti i giorni”. 

Come si realizza un cortometraggio di questo tipo e quanto tempo occorre per produrre pochi minuti di video?

Dall’idea iniziale al primo ciak a volte possono anche passare degli anni. Le storie si prendono il loro tempo prima di sedimentarsi e assumere una forma definitiva. Le riprese sono la parte che si svolge più in fretta, mentre il lavoro di scrittura prima e di post produzione poi, richiedono settimane se non mesi. Quando la storia è matura è essa stessa a chiedere di essere messa su pellicola, è una cosa che senti di dover fare, non saprei in che altro modo spiegarlo. Per quanto concerne l’organizzazione generale mi affido sempre alla collaborazione dei partecipanti, alcuni dei quali spesso assumono un vero e proprio ruolo di produttori per quanto riguarda la ricerca delle location e il casting. Il resto viene da sé, sempre senza alcun budget; per me la disponibilità, il tempo e l’impegno delle persone valgono più di ogni fondo a disposizione. 

Dopo i primi corti “Santa Nesta di Sangue” e “Lo Strappo”, in cui era la storia a farla da padrone,  sei passato ad una fase immaginifica e metaforica con “Il Paese” e “La Provincia”; mentre con “K” sembra sia iniziata una nuova fase. Spiegaci questa evoluzione tra diversi stili.

Credo che ogni opera sia la fotografia di un dato momento del mio percorso artistico, se così vogliamo definirlo. Santa Nesta e Lo Strappo rappresentano un discorso a parte poiché sono lavori collettivi, frutto dell’immaginazione e dell’impegno di un gruppo di amici, ma soprattutto della voglia di divertirsi. Andando avanti nello studio da autodidatta del mezzo ho continuato a sperimentare, girando piccoli corti e coadiuvando poetica ed esercizio di stile; la summa di questo percorso di poesia visiva sono stati appunto “Il Paese” e “La Provincia”, accolti erroneamente come inno alla mia terra (Bagnoli e l’Irpinia), mentre il messaggio era molto più profondo ed esteso.

“K” è tratto da un mio racconto scritto 10 anni fa per un concorso letterario e in qualche modo ho sempre saputo di avere tra le mani una storia pronta per essere girata, ma ho atteso che i tempi fossero maturi per uno sviluppo di capacità tecniche più definite e performanti da parte mia e, come dicevo prima, sono passati anni dalla scrittura alla realizzazione del corto vero e proprio.

In tutti i tuoi corti c’è l’Irpinia, ma non vi è mai una celebrazione diretta a questa terra. Sappiamo che viaggi molto e non avresti problemi ad ambientare le riprese altrove. Spiegaci il tuo rapporto con questa terra.

La risposta è molto semplice e di natura prettamente pragmatica. Vivendo gran parte dell’anno qui, è qui che le mie storie prendono forma, è questo l’ambiente in cui studio e osservo le dinamiche umane. Ma capisco che quanto più piccolo sia il luogo di provenienza tanto più forte sia la tentazione di vedere celebrazione e valorizzazione anche laddove non vi sono; ritornando a “Il Paese” di cui mi hai chiesto prima, il mio intento era di dar voce al Paese inteso, per una volta, come entità vivente a se stante e il suo rapporto con gli abitanti, immaginando una critica che il padre-paese muove ai suoi figli-abitanti; con “La Provincia” ho tentato la medesima operazione di fantasia, creando la metafora di una provincia (qualsiasi provincia) come entità più che ente, che vive nella nostra testa e che ci portiamo dentro col nostro pensare in piccolo, senza mai guardare oltre. Entrambi accolti come inni celebrativi al centro storico di Bagnoli e alla fantomatica bellezza dell’Irpinia, sento senz’altro di aver fallito in questo mio intento metaforico. “Sounds of Silence” non è geo-localizzata perché riguarda il personaggio più che l’ambiente, ma è rimasta comunque una scelta pratica girarlo qui per ovviare alle problematiche che si pongono con un budget inesistente; per questo ho chiamato un amico che ha chiamato a sua volta altri amici e sono letteralmente sceso con la telecamera a girare le prime scene sotto casa. 

Per concludere, si vocifera che stai lavorando ad una misteriosa web serie basata sul folklore bagnolese, queste indiscrezioni sono vere?

Shhhh.

Federico Lenzi

(da Fuori dalla Rete, Marzo 2019, anno XIII, n. 1)



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