La caccia del Tartufo è Patrimonio Unesco: una vittoria per uomini e cani. Intervista a Salvatore Lenzi

Kodami.it

La Cerca e la cavatura del tartufo in Italia è ufficialmente iscritta nella lista UNESCO del Patrimonio culturale immateriale: una vittoria per un’arte che racchiude in sé il rispetto della biodiversità e il sacro rapporto tra il tartufaio e il suo cane.


Una notizia molto attesa dalla piccola ma appassionatissima comunità di tartufai: sono loro che hanno fatto di questa pratica un’arte che unisce una profonda conoscenza del territorio, rapporto di simbiosi con i cani e amore per la tradizione.

È la prima volta nella storia che un bene immateriale UNESCO ha come elementi chiave il rispetto della biodiversità e il rapporto con un animale. «Il rapporto con il cane è fondamentale: è un tutt’uno con l’umano, sia durante la cerca del tartufo, ma soprattutto nelle fasi precedenti. Quello tra cane e tartufaio è un legame che si costruisce nel tempo e che porta a una comprensione tra uomo e animale che non ha bisogno di molti gesti o parole», così Salvatore Lenzi racconta a Kodami la sua esperienza di imprenditore a stretto contatto con i cavatori di Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino.

Sono circa 70.000 i tartufai riconosciuti e 14 le regioni italiane coinvolte, ma sono tre i territori riconosciuti per l’elevata qualità dei loro tartufi e che beneficiano per questo della Certificazione di Origine Protetta: Alba, in Piemonte, nota per il pregiatissimo tartufo bianco, Norcia, in Umbria, e Bagnoli Irpino, in Campania.

Il cane è l’alleato fondamentale

Lenzi, di professione imprenditore del tartufo, ha rivissuto l’esperienza al fianco dei cercatori di Bagnoli Irpino, Comune diffuso di appena 3mila abitanti dove si trova il cuore della cerca del tartufo nero campano. Qui i tartufai, a ridosso dei monti Picentini, seguono strade antiche che sarebbero inviolabili per l’uomo senza il supporto del cane cercatore: «La cerca del tartufo è cultura. È una vera e propria arte che si trasmette di padre in figlio da tempo immemore».

Nelle comunità tartufaie delle aree interne da secoli gli uomini con i loro cani si svegliano poco prima del sorgere del sole per intraprendere gli stessi percorsi battuti dai loro predecessori, spesso familiari più anziani. Una tradizione che, seguendo le orme tracciate di padre in figlio, racconta la lentezza di un rito sacro che passa per la conservazione della biodiversità. Questa infatti è un’attività che unisce alla conoscenza scientifica una componente di mistero quasi spirituale. I cercatori sono gelosissimi dei loro percorsi, dei loro riti e soprattutto dei loro cani.

«Ci sono cani eccezionali che lavorano quasi come cani da riporto: annusano il tartufo e senza aspettare il cercatore umano fiutano il terreno e scavano in autonomia, quando trovano il tartufo lo riportano indietro al tartufaio che può trovarsi anche a 400 metri di distanza. Per i cani è una sorta di gioco ma per l’umano è una ricchezza inestimabile perché non tutti gli animali sono in grado di fare o imparare un’attività simile», svela Lenzi.

Le caratteristiche straordinarie che rendono perfetto un cane da tartufo sono molteplici. L’appartenenza a una particolare razza canina non garantisce di per sé che il cane sia adatto a questa attività, servono una serie di caratteristiche fisichemotivazionali e di relazione con l’umano di riferimento. Solo una perfetta triangolazione di queste componenti garantisce al cercatore e al cane la resa perfetta.

Dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, sicuramente è necessario che il cane abbia un buon olfatto e una scarsa curiosità nei confronti del selvatico, altrimenti potrebbe interessarsi più alla selvaggina che alla cerca. Fondamentale è anche la propensione a svolgere un’attività motoria impegnativa e collaborativa. Le razze di cani che più spesso apprezzano questa attività sono: Lagotto, Jack Russel, Bracco tedesco, Pointer e Cocker.

I valori di conoscenza del territorio e della simbiosi con il cane sono alla base della decisione UNESCO. Valore sottolineati anche dal direttore della Coldiretti, Ettore Prandini: «L’ingresso del tartufo tra i patrimoni dell’umanità è un passo importante per difendere un sistema segnato da uno speciale rapporto con la natura in un rito ricco di aspetti antropologici e culturali. Una tradizione determinante per molte aree rurali montane e svantaggiate anche dal punto di vista turistico e gastronomico».

Alla luce di ciò, la conquista raggiunta oggi dalla cerca del tartufo stride con il medesimo riconoscimento concesso alla falconeria, che ha alla base lo sfruttamento e non la simbiosi con un animale. Quello della cerca del tartufo è al contrario un rito segreto che gli anziani tramandano ai giovani con parsimonia e che questi sono ben felici di raccogliere accompagnati dai loro fidi colleghi a quattro zampe.

Il tartufo italiano vale mezzo miliardo di euro

Questi “artisti della ricerca” sono così gelosi dei loro percorsi da non farne mai parola con nessuno, l’abilità di un tartufai sta proprio nel conoscere i sentieri e i periodi migliori per trovare i tartufi migliori. Perdere l’esclusività di questa conoscenza significa anche perdere la propria risorsa principale.

«Il percorso del cavatore è sacro», conferma Lenzi che dal rapporto con il suo territorio ha fatto nascere una delle più grandi aziende italiane esportatrici di tartufi. «Il 95% del nostro commercio avviene con l’estero, ma non sarebbe possibile senza una parola chiave: lentezza. Questo commercio deve fare necessariamente i conti con elementi naturali inalterabili. Cambiarli o forzarli significherebbe modificare ciò che rende il tartufo italiano tanto prezioso, come oggi ha confermato anche l’UNESCO».

Il mercato del tartufo in Italia vale circa mezzo miliardo di euro. Un volume non indifferente per una filiera che non è ancora stata assoggettata alle logiche della produzione di massa: «Il tartufo segue una sua stagionalità. A Bagnoli Irpino adesso c’è la neve e quindi è impossibile cercarli, tra poco, dal 31 dicembre, anche i tartufai di Alba dovranno fermarsi», evidenzia Lenzi.

Il rispetto di  una stagionalità che non può essere forzata dall’uso della tecnologia, il coinvolgimento di soli due individui, un uomo e il suo cane, sono tutti elementi che contribuiscono a fare di questo tipo di fungo un prodotto unico al mondo. Secondo il sottosegretario alle Politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, questo riconoscimento è ancora più significativo perché «Tutela dai rischi di una eccessiva commercializzazione come invece accade in altri paesi».

Quella offerta dall’UNESCO può essere l’occasione per accendere i riflettori anche sulle ombre di quest’arte. Infatti, anche se esiste un apposito patentino che viene rilasciato a livello regionale dopo il superamento di un esame di idoneità, non è ancora prevista per i tartufai una classificazione professionale. In sostanza, i tartufai sono lavoratori invisibili per gli enti previdenziali e le leggi dello Stato. «Ora il tartufo è un prodotto molto richiesto, tuttavia l’invisibilità dei tartufai persiste – sottolinea Lenzi – e comporta l’assenza di specifiche assicurazioni sul lavoro o l’impossibilità di fatturare alle aziende alle quali vendono i loro prodotti». Ancora di più adesso che la cerca del tartufo ha ricevuto un riconoscimento internazionale tanto importante, sarebbe giusto offrire oneri e garanzie ai tartufai.

Articolo a cura di Maria Neve Iervolino (www.kodami.it)

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