Ventitre novembre: il cielo capovolto e le memorie dal sottosuolo

di Maria Varricchio

In occasione del 40esimo anniversario del terremoto dell’Irpinia pubblichiamo questa bellissima testimonianza della professoressa Maria Varricchio. Un racconto struggente, che sgorga da ogni dove di profondi e sinceri sentimenti: dolore, distacco, sconforto, buio, ma anche speranza, rinascita, luce  e amore. Un «parto dolorosissimo», una tappa obbligata e coraggiosa per liberarsi, finalmente, dopo 40 anni, di un macigno che l’ha condizionata per tanto, troppo, tempo. Chissà, forse, l’elaborazione definitiva del lutto (ci scusi l’autrice per questa orticante ed impropria espressione) da parte di una persona che, allora bambina, aveva solo 7 anni, ha avuto bisogno di tutto questo tempo per provare a sistemare definitivamente, e secondo un ordine approssimativamente logico, tutti i pezzi del suo puzzle-vita. Buona lettura. (mn)


Tracce inizialmente. Prima confuse poi via via più nitide. Nel percorso accidentato della ricostruzione e restituzione della memoria, il dolore si mette di traverso. Dopo 40 anni? Sì. Il tempo per “noi”, quelli dell’80, ha un andamento circolare a volte e ti riporta in quel luogo e a quell’ora. Lo sguardo su quell’abisso di novanta secondi oscilla tra emotività e lucidità ma una cosa è certa: da quell’abisso non puoi scappare perché dal buco nero dei ricordi arrivano frammenti e schegge che si conficcano nel centro del petto.

E con le schegge arrivano memorie di una vita prenatale. Sì, ​ perchè quei 7 anni “prima” appartengono ad un’era geologica inghiottita dal sisma. In una domenica stranamente calda ho (ri)visto nel cielo un rosa di una bellezza struggente. Il giorno sta per morire -non credo si pensi mai abbastanza alla bellezza insita nelle cose che stanno per morire- , saluto a malincuore la mia amica del cuore interrompendo giochi che non avrei ripreso più.​

Schegge di un’estate insolitamente lunga hanno raggiunto quel 23 novembre. Una si è depositata sul cielo, esplodendo in volute rosa che colorano il crepuscolo.

Un’altra, più grande, ha raggiunto il centro della terra come ​ una pietra lanciata ​ in uno stagno: onde che si propagano fino alla deflagrazione.

Mi aggrappo agli attimi prima della fine: a quei gradini che mi avrebbero portato in un appartamento di cui ricordo poco ​ o nulla se non l’amore che l’ha pervaso, alle spalle forti di mio padre, al suo sguardo di una dolcezza infinita, alla mano di mia zia che mi conduce dal mio compagno di giochi al terzo piano. Sono scene che tornano e ritornano, sono proprio sul limitare dell’abisso, una frazione di secondo che vorrei fermare per sempre per riavvolgere il tempo, per trattenere chi ho amato, tendere la mano e riportarli in quella vita che avrebbero meritato ma che è stata loro negata.

Ma no. Non si può. La “resurrezione” personale e degli affetti strappati non può che passare attraverso il dolore. È un pedaggio necessario. Si deve scavare per recuperare anime, quelle dei vivi e quelle dei morti. Bisogna ritornare nel ventre della terra, la stessa terra che ha inghiottito me e migliaia di persone e che poi ci ha restituito ad una vita diversa o ha sepolto per sempre.

Una parte di questa nuova vita è germinata in quel sottosuolo, nei secondi che sembrano infiniti, nel buio interrotto solo da un fiato di luce, nel silenzio spezzato dalle urla di chi vuole ​ vivere ma anche di chi chiama invano nomi che non avrebbe, che non avrei, pronunciato  più.

E poi la polvere densa, che ti spezza il respiro, il corpo che non ti risponde, confinato nella gabbia di una posizione innaturale, i momenti di coscienza alternati a quelli della perdita dei sensi, quasi benedetti perché segnano una pausa nel dolore fisico che sembra ed è intollerabile.

Posso sentire ancora adesso, come se fossi ​ lì in​ quel sottosuolo, la vita in superficie: in un rimando di specchi le immagini di distruzione sono le stesse, la disperazione è la stessa, forse maggiore perché ovunque si posi lo sguardo la morte e la distruzione hanno vinto.

Posso sentire i battiti del mio cuore che scandiscono un tempo di cui ho perso le coordinate. Poi sento la forza mista a rabbia montare per rompere quell’apnea sotto terra e respirare di nuovo l’aria del giorno prima, così calda, così stranamente calda, sollevare lo sguardo, liberarmi dai lacci della morte che non è riuscita a inghiottirmi.

E poi inaspettatamente la salvezza:​ la furia della disperazione e della speranza di chi vuole restituire al cielo quante più vite possibile e rimettere in piedi il futuro già tra le macerie. Devo a quelle mani la mia vita, una vita che non sarebbe stata più la stessa ma pur sempre vita, da riscrivere con tutto quello che resta: una madre che fino a poco prima credeva d’aver perso tutto, due fratelli che mi avrebbero guidato sempre e un paio d’occhiali coriacei come me e che ancora oggi mi ricordano che se il cielo è capovolto e la terra è sottosopra bisogna resistere e lottare. Il dolore? Lo si affronta in tutto il suo peso specifico, soprattutto quando ci graffia. Non c’è consolazione. Nessuna. Nel sottosuolo ho ritrovato memorie e persone sepolte, parole rimaste sospese, quasi congelate. La stessa​ terra che mi ha inghiottito mi ha ripartorito.​ Le parole con cui ho dato un nome al mio dolore mi hanno salvato di nuovo.

A mio padre Costantino ​e a zia Albina e alla loro nuova vita in me

Alle mani di Rocco che mi hanno restituito a mia madre

A Gianluca e Pierpaolo, ​ e a tutti i fiori d’Irpinia mai sbocciati

Maria Varricchio

(da Fuori dalla Rete, Novembre 2020, anno XIV, n. 5)


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