Il dipendente che rifiuta il vaccino anti-Covid può essere licenziato?

di Isabella Tammaro

La risposta è no, almeno temporaneamente, in quanto non vi è alcuna disposizione di legge che preveda l’obbligo di vaccinarsi contro il Covid-19.


Nel momento in cui è stata diffusa la notizia della realizzazione dei primi vaccini anti-covid19, da parte di importanti aziende farmaceutiche e della sua imminente somministrazione, se da un lato vi è stato chi ha salutato con favore la stessa, dall’altro vi è stato chi ha manifestato apertamente il proprio dissenso originato dal timore di possibili, sconosciuti, effetti collaterali derivanti da un vaccino realizzato celermente, in un lasso di tempo troppo breve, e non testato adeguatamente.

Ciò ha dato vita ad un animato dibattito, ove in più occasioni i no vax, nel ribadire il proprio rifiuto di sottoporsi al suddetto vaccino, hanno posto l’accento sulla violazione del cd. diritto all’autodeterminazione terapeutica, ovvero il diritto di sottoporsi a cure mediche solo su espressa volontà del soggetto.

In tale contesto ha iniziato a farsi strada l’idea di rendere obbligatorio il vaccino, quantomeno negli ambienti di lavoro, e di consentire al datore di lavoro di adottare un provvedimento disciplinare o addirittura intimare il licenziamento del dipendente che rifiuti di sottoporsi allo stesso.

Da qui la nascita del seguente quesito “il datore di lavoro può licenziare il dipendente che rifiuti di sottoporsi al vaccino anticovid19?

La risposta è NO.

Nel nostro ordinamento nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario in assenza di una specifica disposizione di legge che ne sancisca l’obbligatorietà, e per contro, alcun trattamento sanitario può essere compiuto o proseguito senza l’esplicito consenso del soggetto interessato, che ha il diritto di decidere in piena coscienza e libertà di sottoporsi o meno a cure mediche, si tratta del cd. principio di autodeterminazione al trattamento sanitario, che trova fondamento nell’art. 32 della Costituzione.  Ad oggi il legislatore non è ancora intervenuto con una norma ad hoc che imponga il vaccino quale condizione necessaria per lo svolgimento dell’attività lavorativa, per cui al momento non vige alcun obbligo di vaccinazione contro il Covid19 sul posto di lavoro, e di conseguenza alcun licenziamento può essere irrogato.

In caso di contagio in azienda quali conseguenze sono previste per il datore di lavoro?

L’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di tutelare la salute del lavoratore adottando tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti all’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, in quanto la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone allo stesso di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione lavorativa.

Ed ancora, l’art. 279 TU sicurezza sul lavoro (D.Lgs 81/2008) al comma 2 richiede “la messa a disposizione di vaccini efficaci per i lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione”.

Il covid19 è stato riconosciuto come agente patogeno del gruppo di rischio 3. Lo stesso legislatore ha qualificato il rischio COVID ad un rischio di natura professionale, con i DCPM del 10 e 26 aprile 2020 ha reso obbligatori i protocolli di sicurezza da adottare presso le attività produttive, ed all’art. 42 co.2 del DL 18/2020 Cura Italia ha riconosciuto che l’infezione da coronavirus, quando avvenuta in occasione di lavoro, costituisce infortunio sul lavoro protetto dall’INAIL.

Tanto basta a legittimare la decisione del datore di lavoro di imporre il vaccino ai propri dipendenti, e di licenziare per giusta causa coloro che prestino il proprio  rifiuto, in quanto potenzialmente pericolosi anche per gli altri soggetti presenti nel luogo di lavoro. È innegabile, infatti, che le scelte del singolo ricadano inevitabilmente ed abbiano ripercussioni sulla salute e sicurezza altrui, motivo per cui il datore ha l’obbligo di intervenire. Dunque seppur vero che il legislatore ha attribuito priorità all’autodeterminazione individuale, è anche vero che l’eccezionalità della situazione, (l’emergenza pandemica), richiede di fare un passo indietro e di porre in primo piano la salute della collettività rispetto a quello individuale. Non vi è libertà di cura che possa estendersi fino al punto tale da pregiudicare la salute altrui.

Il distanziamento sociale, l’uso di mascherine ed igienizzanti si sono rivelati insufficienti, per cui, al momento il vaccino rappresenta l’unico strumento in grado di tutelare il diritto inviolabile alla salute del lavoratore e della collettività.

A parere di chi scrive sarebbe opportuno ricorrere al licenziamento quale extrema ratio, insomma solo come ultima spiaggia.

In caso di rifiuto del lavoratore di sottoporsi a vaccino anticovi19, il datore dovrebbe inviare il lavoratore a visita, presso il medico competente, per appurare la natura e la motivazione poste alla base del rifiuto, in quanto lo stesso potrebbe anche essere supportato da esigenze medico scientifiche es. allergia ai farmaci.  Inoltre, il datore dovrebbe valutare la possibilità di adibire lo stesso ad altre mansioni, o di far ricorso allo smart working. Qualora alcuna delle due opzioni fosse possibile, potrebbe procedere con la sospensione retribuita del lavoratore (nel  caso in cui sussistano esigenze medico scientifiche), non retribuita nelle altre ipotesi.

A dispetto di quanto si spera, ben presto, inevitabilmente, il vaccino anticovid19 potrebbe essere reso obbligatorio, considerati anche gli ottimi risultati che altre Nazioni, avanti con il numero di vaccinazioni rispetto al nostro Paese, stanno ottenendo.

Quando ciò accadrà si spera che il legislatore possa optare per altre soluzioni e guardare al licenziamento del lavoratore che oppongo il suo diniego, come extrema ratio.

Isabella Tammaro, Responsabile provinciale Confunisco

(da Fuori dalla Rete, Marzo 2021, anno XV, n. 1)

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