La notte dei fantasmi

In ricordo del prof. Ferdinando Rogata

Livido cielo, livida terra,

l’uomo cammina coi piedi per terra.

A Crapulonia è tutto diverso:

l’uomo saltella per l’universo!

D’estate a Crapulonia il sole non riscaldava. Bruciava. E quando ti toglievi i panni di dosso ti scottavi i polpastrelli delle mani. La gente si contendeva l’ombra dei pochi alberi rimasti. Per noi anche mangiare era faticoso, perché non si faceva altro che sudare. Sì, per noi era un lavoro mangiare, e questo lo voglio dire per rintuzzare le accuse di coloro che dicono che siamo parassiti e scansafatiche.

Malgrado l’inclemenza del tempo, riuscivamo comunque a sopravvivere e a conservare il nostro stile di vita: i salumieri si mangiavano il prosciutto e ci vendevano l’osso, non senza prima averci convinto che quello era la parte migliore. I macellai ci vendevano le salsicce, ed è vero che c’era scritto “salsicce”, ma erano le migliori al mondo, forse perchè erano contornate da uno sciame di mosche; ma quelli, con noncuranza e con uno sguardo che diceva “non parlare che ti ammazzo”, pesavano la merce e incartavano mosche e carne. Ed è vero che non lesinavano sul peso, ma se chiedevi che carne fosse, loro ti rispondevano: “Carne… di carne!” Accidenti! E io che non avevo mai capito che fine facessero quelle torme di cani randagi che sparivano all’improvviso!

Malgrado gli intoppi di cui si è detto, si viveva una vita normale. Gli onorevoli, a furia di intascare mazzette (si dice che la gente gliele infilava in tasca a loro insaputa), giravano con le tasche sempre rigonfie finché, per non apparire sconvenienti, cominciarono a portarsi appresso dei portaborse, sempre sudati e indaffarati, mentre i generali procedevano ingobbiti sotto il peso delle medaglie. Non avevamo un esercito, ma in caso di guerra sapevamo chi ci avrebbe comandato, e ciò dal nostro punto di vista era una pazzia; ma i nostri nemici ci temevano perché erano convinti che, con tutto quell’apparato che nelle sfilate faceva bella mostra di sé, di sicuro avremmo dovuto avere un grande esercito, però diabolicamente mimetizzato, il che appunto li intimoriva ancora di più. Anche mio zio ebbe una medaglia: gliela diedero perché fece un’intera doccia sotto l’acqua fredda, non riuscendo a capire come girare la manopola per l’acqua calda. Uscì dalla doccia tremante e bestemmiando solo una volta la Madonna: per questo ebbe la medaglia! Mi raccontava che un suo amico ne aveva ottenute tre, perché durante una manifestazione aveva intrattenuto amabilmente la moglie del prefetto per circa due ore, parlandole della ricerca dei tartufi e descrivendo per filo e per segno come si preparavano. Stessa onorificenza per un altro che aveva salvato il figlio di un onorevole che non sapeva nuotare. Puoi anche essere figlio di un onorevole, ma se non sai nuotare nell’acqua ci affoghi e basta. A me, per esempio, mi chiamavano il delfino, ma nell’acqua non ci andavo mai. Trote e delfini è meglio che stiano sulla terraferma, lì almeno è certo che non muoiono affogati.

A Crapulonia non si viveva nell’abbondanza, però, quando si racimolava qualche soldo frugando nelle tasche dei genitori e  dei nonni, non si era mai egoisti e sempre ci si riuniva in qualche bettola dove una signora accaldata e avanti negli anni ci portava una miscela collosa e densa come olio per motori bruciato, e si cominciava a bere e a cantare canzonacce allora di moda: “Livido cielo, livida terra, sale improvviso il grido di guerra: solo e smarrito durante la notte, è morto Culone con le mignotte! Ma che si muoia già lo sappiamo, che è morto Culone ce ne fottiamo!” “È inutile che ci sperate”, ci diceva la signora, “tanto quello non muore. Quello ha i santi in paradiso.” E subito c’era qualcuno che cominciava a riflettere sulla morte. E di lì a parlare dei fantasmi il passo era breve.

C’erano dei punti ben precisi dove uscivano i fantasmi. Tutti giuravano di averne visto qualcuno e chi non ne aveva visti giurava che suo padre gliene parlava qualche volta. In una di quelle sere, Carbone ci chiese: “Chi sono i Celti?” Noi sbiancammo in volto pensando a chissà quali particolari fantasmi e farfugliammo che mai ne avevamo visto uno, ma l’ostessa, che ci aveva portato altro vino, sbarrò gli occhi e urlò: “Ignoranti! Sono un grande popolo. Ai Romani gliele suonarono di santa ragione!” “Ma che cazzo dici tu? – sbottò Caterinella – Proprio tu che sei ubriaca di prima mattina e non sai né leggere né scrivere. I Romani erano invincibili!”

Ora, bisogna dire che Caterinella era una ragazzetta sulla trentina che, appena vedeva uno con un bicchiere di vino, subito gli si appollaiava sulle ginocchia e trovava la maniera, tra uno sberleffo, un sorriso e una battutaccia, di bere a sbafo. Il suo motto era: “Promettere tutto a tutta la gente, e dopo bevuto non dare un bel niente!” Per ignorante era ignorante anche lei, e la sua testa era una damigiana vuota, in cui però se ci butti una pallina o un sassolino, rimbalza da tutte le parti e ugualmente risuona. Metterle in testa un elemento di discussione significava fornirle carburante per ore e ore, anche perché tu non te ne potevi stare per conto tuo, in quanto ti coinvolgeva direttamente e ti invitava a dire la tua.

“Sarà uno di quei popoli che affogò in una sputacchiata di Cesare! – riprese Caterinella – Mica avevano il coraggio di mettersi dinanzi a lui! Scommetto che, dopo averli cercati per alcuni giorni, si rese conto che si erano rifugiati sugli alberi. Allora non si diede pena, si fece preparare il tavolo da pranzo, si fece portare una bottiglia di vino e disse ai soldati: ‘Riposatevi, non vi sporcate le mani con questi stronzi!’ E dopo aver bevuto disse a un soldato: ‘Qui la sera fa freddo. Accendete un bel fuoco, così stiamo caldi e ci godiamo lo spettacolo.’ E così fecero i soldati, e li bruciarono tutti!” “Ma come ti viene in mente?” fece l’ostessa, che aveva seguito con gli occhi spalancati quel profluvio di chiacchiere. Ma Caterinella ricominciò spavalda: “A me mi viene da dire questa strofetta a proposito dei Celti: ‘Lenti di mente ma di mano svelti’, basta che uno li intravveda e subito diventano intraprendenti.”

Caterinella aveva fatto della parola, pensata che fosse a proposito o a sproposito, l’arma per la sua sopravvivenza. Non tornava dal mercato senza aver rubato con la massima tranquillità delle vesti o delle scarpe, e mai che la sorprendessero con le mani nel sacco! Quando si festeggiava il santo patrono, le bancarelle dei torroni e delle noccioline si svuotavano: partiva che era mingherlina e con le gambe ben dritte, e ritornava camminando lentamente, rigonfia e con le gambe aperte. Veniva da noi che eravamo seduti sulle panchine, scaricava e ripartiva. Tutto divideva con noi, voglio dire tutto quello che rubava. E non provava rimorso, perché i commercianti son tutti ladri!

“Ma si può sapere che cazzo c’entrano questi Celti con noi? Mica abbiamo bisogno di mercenari, con tutto questo arsenale e questi generali che teniamo? E poi, mica abbiamo bisogno di armi? Che vengano qui questi Celti: le graticole sono pronte e abbiamo bisogno di carne fresca. Speriamo che siano grassi e grossi. Con tutti questi francescani che c’è in giro urge un approvvigionamento!” Carbone, che aveva sentito la sfuriata, timidamente riprese a parlare: il padre, graduato dell’esercito, in nome della fratellanza patria, doveva ricevere con tutti gli onori il nuovo comandante della stazione locale che pare fosse uno della razza prescelta dei Celti, e, poiché l’ospitalità prevedeva un giro per il demanio, Carbone doveva procurarsi un cavallo da uno di quegli allevatori che erano in montagna.

No che non aveva paura dei fantasmi! Erano tutte balle! Sì, c’era chi raccontava di cavalli giganteschi e di muli con le corna. Neppure Caterinella aveva paura dei fantasmi, ma quando di notte passava accanto a una catapecchia fatiscente, dove si diceva che era morta una vecchia in un incendio, percorreva la strada dal lato opposto e con un po’ di batticuore. In verità Carbone era seccato non tanto per le storie dei fantasmi, ma piuttosto perché l’indomani non poteva andare in processione in montagna, a portare una statua del paese in un luogo dove c’era stato un miracolo, per poi fare ritorno la sera. E, forse, l’intenzione dei due alti graduati non era tanto quella di fare un giro nei boschi, quanto quella di partecipare alla festa.

“E tu – suggerì Caterinella – vallo a prendere di notte, così lo consegni presto presto a tuo padre e ci raggiungi mentre saliamo con la processione.” E così Carbone fece. Bevve l’ultimo bicchiere, fece un gesto con la mano, passò a casa, pigliò una decina di cartucce che mise in tasca, prese il fucile e si avviò su per la montagna avvolta dalla nebbia. Erano le due di notte quando iniziò la discesa in groppa alla giumenta, seguita dal puledrino. A quell’ora si inerpicavano su per la montagna i venditori di nocelle e torroni, chi con un carretto,  chi con un asinello, ma tutti sbruffando e lamentandosi per la salita che non finiva mai, e giurando e spergiurando che mai più ci sarebbero venuti. D’improvviso la giumenta cavalcata da Carbone nitrì per richiamare il puledrino, il quale, sentito il richiamo, si mise veloce al trotto. All’inatteso risuonare degli zoccoli, i lamenti dei venditori ambulanti diventarono invocazioni alla Madonna e iniziò un fuggi fuggi generale, fra casse che si aprivano rumorosamente e tavole che sbattevano per terra. Carbone, al sentire quel fracasso e quelle urla, non si spaventò. Tuttavia imbracciò il fucile e fece partire due o tre colpi.

Era l’alba ed era tornata la quiete quando Caterinella, come era sua usanza, già scarpinava su per la via della montagna per andarsi a posizionare vicino alla bancarella più fornita, così da poter fare il mestiere che più le gradiva, e diede un calcio al primo torrone scambiandolo per un involucro vuoto. Poi però, man mano che avanzava, vide che torroni e buste di arachidi aumentavano e se ne fece un bel carico. Più saliva e più la roba si trovava in abbondanza, e cominciò a fare le sue considerazioni sui problemi di Crapulonia. “Dannati paraculi! Ci moriamo di fame, ma facciamo gli smargiassi per ogni stronzo che arriva!”  Da cavallo, parlottando fra loro, sopraggiungevano intanto i due graduati, e lei si scansò per farli passare. Erano in divisa e con la giacca piena di nastrini e medaglie: uno era il padre di Carbone; l’altro era alto e biondo, e ogni tanto assentiva con il capo facendo un sorriso da cavallo. “Ma non lo sanno questi – pensò Caterinella – che oggi non è carnevale? Noi non abbiamo di che mangiare e, malgrado tutto, arrivano nuovi padroni. Ma la madre di questo non poteva partorirlo morto?” Poi si dette una pacca sul pantalone afflosciato, che conteneva quel suo sedere smagrito, e pensò: “Amico, l’anno prossimo avremo tre chili di meno! Ma crederanno più gli uomini che io ho ancora il culo?”

Ormai le era passata la voglia di fare la processione, si voltò e prese svogliatamente la via del ritorno. Giù a valle si ergevano immote e spettrali le nostre colline spelacchiate, piene di rovi e di spine, con le rocce sgretolate dal sole, dal vento e dai ghiacci, come vuote mammelle di una madre che, non più in grado di allattare, vede morire di fame i suoi propri figli.

(In ricordo di) … Ferdinando prof. Rogata

(da Fuori dalla Rete, Agosto 2020, anno XIV, n. 4)

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