L’incubo fantastico… di una giornata a Laceno (Parte Seconda)

di Francesco Lo Monaco

Parte Seconda

Lo guardai preoccupato, ma non dissi una parola per non tradire col tono della voce la tensione che mi stava attanagliando. Mi disse semplicemente: “Dobbiamo superare questo ponticello, strisciandovi sopra distesi a pancia sotto e a marcia indietro.” <<Come?>> – reclamò la mia smorfia di stupore –  <<… a pancia sotto e a retromarcia?>> Sì, quello era l’unico modo possibile per passare dall’altra parte. Muoversi indietreggiando serviva a limitare il rischio di sbilanciarsi, in quanto il punto di arrivo era situato più in basso rispetto a quello di partenza. Poi, con la essenzialità e la voce distaccata di una  guida indiana mi ingiunse di tenere gli occhi chiusi durante il tragitto, per non guardare nel vuoto e divenire preda dal panico.

In quel momento iniziai a nutrire forti dubbi sulla mia idoneità per quella impresa e a chiedermi se non avessi fatto bene a declinare l’invito. Però mi dava fastidio mostrarmi insicuro e pavido. <<L’assennatezza di un uomo sta anche nel saper riconoscere il confine sottile tra coraggio e temerarietà; se questa qualità scarseggia, è bene abbandonare ogni stupida velleità…>> rimuginavo con severo spirito di autocritica. Poiché ero giovane e orgoglioso, misi da parte ogni titubanza e decisi di lasciare al destino il compito di etichettare l’impulso che mi stava spingendo a quel pericoloso cimento.

Alle mie spalle c’era il bosco, davanti il precipizio, al di là di questo una maestosa muraglia di pietra grigia che sembrava sfidare il cielo con le sue creste puntute. Deframmentai il garbuglio di considerazioni che andavano ammonticchiandosi nel cervello e mi guardai intorno per fare un sommario preventivo delle difficoltà che restavano da  superare prima di giungere a questa “benedetta” grotta. “Dove mai sarà?”, farfugliai  impercettibilmente, volendo così interloquire solo con me stesso. E, invece, fui subito captato e decifrato. “Aspetta e vedrai, andiamo!” . Quell’<<Andiamo!>> per le mie orecchie equivalse al <<Fuoco!>> impartito da un ringhioso comandante al plotone di esecuzione schierato alle mie spalle per fucilarmi.

Faceva abbastanza caldo, eppure in quel preciso istante mi sentii investito da una folata di vento gelido che mi spingeva nella direzione opposta a quella del nostro percorso. Era il mio subconscio che non aveva trovato altro espediente dissuasivo. Rassegnato, mi disposi con anima e corpo ad andare avanti. Affrontò il ponticello prima lui ed io lo osservai attentamente in tutti i suoi gesti. Con piccole spinte delle braccia avanzò lentamente a ritroso mantenendosi stabile e aderente alla scaletta con i piedi. Poi venne il mio turno.  Assunsi la posizione che mi era stata raccomandata e iniziai a muovermi reggendomi al ferro con prese spasmodiche delle mani.

Le oscillazioni che gli spostamenti brevi e ravvicinati imprimevano alla passerella accrescevano il mio impaccio. Trepidavo alla stessa maniera di un equilibrista da festa paesana alle prese col suo bilanciere sul filo teso fra il campanile e il tetto del municipio, senza rete! Una sola e sostanziale ragione ci differenziava: io non avevo da stupire nessuno con un numero mozzafiato. A questo punto Nello non si risparmiò nei suggerimenti a gran voce per farmi vincere le esitazioni. Io, invece – bel testone -, ne trascurai uno, quello più importante: aprii gli occhi. Mi impietrii! Sotto di me c’era una voragine all’apparenza senza fine, ricolma di silenzio e di bruma verdognola, nella quale si confondevano le asperità della roccia e i colori della fitta vegetazione ad essa abbarbicata.

Di scatto rinserrai le palpebre, inspirai profondamente e ripresi a strisciare finché non completai il passaggio. Rimessomi in piedi,  attesi che si acquietasse tanto il tremolio alle gambe che il battito frenetico del cuore. Avevamo raggiunto uno slargo grossolanamente semicircolare, che per la sua limitata ampiezza ci obbligava a rimanere vicini, ritti e addossati alla parete. Ero tesissimo, senza la minima voglia di cedere ai richiami di quella natura primitiva e superba che si offriva alla contemplazione con regale sussiego.

 <<E da questa trappola come si esce? E dove si va?>> – mi chiesi in silenzio, quasi con rabbia. Quanto stessi facendo sembrava sfuggire ad ogni logica. Solo un dato di tutta la storia era incontrovertibile: la grande incoscienza della quale ero divenuto schiavo quel giorno.

Nello, calato nel ruolo del perfetto capo-spedizione, quello che deve fugare  i timori superflui ai suoi compagni d’avventura per non innescare  apprensioni ingestibili, mi indicò un camminamento a mala pena distinguibile lungo il costone: una sorta di grado artificiale, largo non più di 30-40 cm, in alcuni punti parzialmente franato. Infissi nella parete c’erano degli anelli metallici arrugginiti attraverso i quali correva  un cavetto di acciaio in parte sfilacciato. Quella era ciò che restava della “strada ferrata” che gli speleologi a colpi di piccone avevano tracciato 40 anni prima per accedere alla grotta, e noi dovevamo affrontarla. Un profondo sospiro di rassegnazione anticipò la mia ennesima supplica di aiuto al Cielo.

Ci avvinghiammo con le mani a quel cavetto, e, tenendo pancia, petto e gambe a contatto con la parete ci accingemmo a superare quest’altra difficoltà. Che assurdità, su quella parete a strapiombo a un “marinaio” si stava chiedendo di fare all’improvviso il “rocciatore”. Un passo alla volta. Lo spostamento lungo quel solco avvenne con molta lentezza e titubanza, anche perché fui assalito di continuo da un cattivo pensiero. …E se un piede perdesse l’appoggio? Senza corde di sicurezza…?! Oltre che per reggermi in equilibrio, lottai per scacciarmelo dalla testa.

Il quarto d’ora impiegato per raggiungere una piccola cengia e frapporre tra noi e il baratro una rassicurante distanza mi sembrò un quarto di secolo. Non me ne ero ancora reso conto, ma quando sollevai lo sguardo vidi uno squarcio verticale gigantesco nel fianco della montagna. Era l’entrata della grotta. “Siamo arrivati finalmente,  questa è  la Bocca di Caliendo.” 

Nello parlò con la stessa contentezza di un papà che ha portato il figlio piccolino al luna park. Dalle retrovie del mio tempo avanzò il fanciullo che fui, mi raggiunse e passò in testa a tirarmi nella fuga di quella strana corsa. Quelle parole, “la bocca di Caliendo”, mi suggestionarono al punto da farmi sentire astratto dalla realtà e proiettato nel mondo di una favola. Di fronte a me non più un’aspra montagna ma il barbuto gigante Caliendo dal corpo cinereo e rugoso che, disteso sul fianco, sonnacchioso mi aspettava per inghiottirmi con le fauci spalancate.

 

Ero già pago e un tantino fiero di quanto avevo fatto fin là, ma… “Ora viene il bello…”  fu il sibillino annuncio che mi fece fare un testa coda tra il gioire e il trepidare. Belle o brutte le sorprese in arrivo, capii che sarebbero state per me di forte impatto. Nell’incertezza riprese baldanza il mio spirito di avventura. La curiosità mi indusse addirittura l’ardire di precedere il mio amico nel varcare l’adito dell’antro.   “Fai attenzione, abitua gli occhi all’oscurità e guarda per terra” – mi suggerì con il tono pacato di un vecchio saggio. Infatti, dopo poche decine di metri, davanti a me vidi il terreno scomparire di netto nel nulla. Mi fermai di scatto.  Il “maledetto” se l’aspettava.

Si divertiva a vedermi di continuo colto alla sprovvista e, tanto per tranquillizzarmi, con spiritoso cinismo mi informò che dal quel punto in poi saremmo andati giù a piombo nelle viscere della montagna. “E come?”   Non mi degnò di risposta. C’era buio. Mi chiese la torcia. Tenendomi per un braccio, mi fece sporgere dal ciglio. Orientò il fascio luminoso nel buco nero sotto di noi e inquadrò a mezzo metro circa un rampone metallico conficcato nella roccia. Era il primo di una quindicina di ferri analoghi che avrei trovato in sequenza nella discesa. Mi parve di iniziare uno di quei viaggi negli inferi tanto cari alla letteratura mitologica.

La tensione si impadronì di nuovo dei miei muscoli. Nel mistero che avvolgeva quella impresa avventata mi misi alla caccia di  qualche certezza, ma non ne trovai. Nonostante le rassicurazioni di chi mi precedeva, prima di affidare il mio peso a ciascuno dei ramponi, lo saggiai ripetutamente con grossolane prove da carico. A metà strada un’altra sorpresa, prevista ma non adeguatamente valutata da me nella sua importanza. La luce, già flebile in alto, si ridusse a poco a poco  fino a spegnersi ancor prima di raggiungere il fondo. Nell’oscurità spalancavo gli occhi per cogliere qualche barlume. Inutile, era come esser ciechi. Non solo. Il tasso di umidità era cresciuto parecchio e ciò rendeva tutto maledettamente viscido.

Le mie scarpe da tennis da passeggio somigliavano sempre più a pattini da ghiaccio e dovetti non poche volte bloccare la scivolata con violente torsioni del tronco prima di riguadagnare l’equilibrio. Ripensai con stizza alle tante voci che, a seguito degli sfottò ricevuti alla partenza, avevo in mente cassato dall’elenco degli attrezzi che avrei voluto mettere in uno zaino. Cercai di far chiarore con la lampada, ma era come voler illuminare il cielo di notte con una candela. Quegli enormi spazi neri con alterigia mi ammonivano sulla mia  insignificante presenza. Nello cercò e trovò dei segni di vernice rossa su una parete: indicavano la direzione da seguire.

Francesco Lo Monaco

Continua…

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