Il macramè dal Brasile all’Irpinia. Intervista al bagnolese Antonio Di Capua

Pellegrino La Bruna (Il Quotidiano del Sud)

“Sebbene l’Irpinia sia la terra del tombolo, la lavorazione del macramè non si è mai diffusa”. A raccontarsi è Antonio Di Capua sessantaseienne di Bagnoli Irpino.”


Come è nata questa passione?

“Sono stato più volte in Brasile. Lì ho visto le donne che lavoravano le corde, realizzavano le amache e tanti altri oggetti legati all’arredamento. Mi sono appassionato a tal punto da decidere di frequentare un corso per imparare. Ero pronto a mettermi in aspettativa dal lavoro per andare in Brasile a frequentare un corso. Poi ho conosciuto una coppia di burattinai che facevano spettacoli in tutta Italia. Mi hanno invitato a casa loro. La donna indossava una maglia lavorata in macramè. Senza esitazioni la signora prese quattro corde, le legò ad una sedia e mi spiegò come si realizzavano i nodi; da qui son partito e ho cominciato ad appassionarmi a questo tipo di lavorazione”.

Che lavoro faceva?

“Facevo il postino. Era un tipo di lavoro che mi ha sempre consentito di dedicarmi a qualche hobby perché finivo di lavorare alle quattordici e trenta. Quando lavoravo in Emilia frequentavo un corso di intaglio in legno, poi uno di cartapesta per imparare a realizzare le maschere, da qualche anno ho imparato ad annodare le corde”.

Che cosa è il macramè?

“È un’arte antichissima, l’arte di annodare le funi inventata dai marinai che trascorrevano così il loro tempo nelle lunghe attese sulla nave. Il termine macramè, deriva dall’arabo mahramatun (fazzoletto) o migramah (frangia di guarnizione), da cui derivano i termini turchi-ottomani mahrama e makrama, che indicano l’asciugamano o il fazzoletto per il capo ricamato. È arrivata in Occidente intorno al ‘400, portata dai marinai delle Repubbliche Marinare. È un’arte molto diffusa in Liguria. Sono le donne, in particolare, a usarla per realizzare merletti, frangia per asciugamani, lenzuola, la scommessa è stata quella di usarla per realizzare oggetti di arredamento”.

Che tipo di materiali lavora?

“Io lavoro la juta, il cotone, il lino e la sisal, sono prodotti naturali, non mi piace lavorare i prodotti sintetici; al tatto ci si rende conto di come questo materiale sia di poco valore, c’è solo un risparmio economico. Sono convinto che sia necessario combattere l’inquinamento e tornare al naturale, lasciando perdere la plastica ed il sintetico”.

Ci sono varie tecniche per fare i nodi?

“Il nodo base è il nodo piatto. Con un poco di fantasia da questo nodo si possono realizzare tante forme, ad esempio c’è la spirale, il nodo piatto alternato, il nodo crocchiolino, il nodo Savoia e tanti altri, io ne lavoro solo alcuni che mi consentono di realizzare i manufatti che ho in mente”.

Che tipo di manufatti realizza?

“Sono soprattutto oggetti d’arredamento: lampade, poltrone. Ho realizzato la spalliera di una sedia, poltrone a mezzaluna, braccialetti, collane, cinture, borse, se si lavora con materiale sottile si possono realizzare anche capi d’abbigliamento. È un lavoro che si fa solo con le mani e pochissimi attrezzi, bastano una forbice ed un taglierino”.

Non si utilizza il telaio?

“Utilizzo la struttura che vado a rivestire come telaio. Si possono realizzare anche tappeti sempre senza nessun telaio, mi è stato chiesto di realizzare una coperta, ho rifiutato perché mi piace eseguire solo i lavori che mi convincono”.

C’è stata qualche creazione che ha richiesto più tempo?

“Un mio amico aveva una bambina ed in casa c’era un soppalco recintato con una ringhiera in ferro, molto pericolosa, cos’ ho lavorato direttamente sulla ringhiera della scala creando una maglia di protezione”.

Come si inizia per fare un nodo?

“Per fare un nodo ci vogliono quattro corde, si può utilizzare un’altra corda porta nodi oppure un ferrettino o un pezzo di legno. Si montano le corde e si inizia a lavorare: in questo modo si può realizzare qualsiasi maglia”.

Quale materiale le piace lavorare di più?

“Il cotone perché è morbido, il lino è più rigido e bisogna stringere i nodi con più forza, il più difficile da lavorare è la sisal, una corda naturale sfilacciata e pungente. Per lavorarla utilizzo i guanti da ciclista per proteggermi le mani. La sisal è difficile da lavorare ma anche la più resistente, basti pensare che viene utilizzata per costruire i ponti tibetani, viene estratta da una pianta grassa, l’agave sisalana. Lavoro con piacere anche la juta che non presenta particolari difficoltà di lavorazione, ho lavorato anche il rame che un mio amico faceva laccare in oro.

Possiamo dire che il macramè è un modo di tessere?

“Molto dipende dallo spessore della corda, il Liguria è molto in voga il lavoro con filati, producendo merletti. Il macramè si lavora in tutto il mondo, dall’Asia all’America. Quando partecipavo ai mercatini tutti gli stranieri conoscevano questo tipo di lavorazione, poco conosciuta proprio in Italia”.

Le piacerebbe insegnare questa forma di artigianato ai giovani?

“Purtroppo il covid-19 ha rovinato tutto, era l’idea a cui stavo lavorando anche perché ho più tempo, stando in pensione. Quando ero in Toscana ho tenuto diversi corsi”.

Ricorda il suo primo lavoro?

“Certamente. È stata una poltrona che ho regalato ad un mio amico, quando rivedo quelle foto mi rendo conto di quanto sia migliorato”.

Il suo miglior lavoro?

“Una culla e due amache. Ora sto lavorando a una serie di borse in cuoio e macramè.

Pensa che si possa vivere di questo lavoro?

“Penso di sì, ma è chiaro che si tratta di oggetti che non sono per tutti. Inoltre, bisogna fare i conti con la concorrenza asiatica”.

Pellegrino La Bruna


(Il Quotidiano del Sud  del 08.01.2022)

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