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Ci sono il pecorino e l’agnello di Carmasciano, l’oliva Marinese e il sedano di Gesualdo, le cannazze di Calitri e il fusillo avellinese, la parmigiana di cipolla ramata di Montoro, il casumusciu e il Pecorino Bagnolese, il Tartufo Nero di Bagnoli, il broccolo aprilatico di Paternopoli e l’uva Coda di volpe Rossa.
Sono solo alcuni dei Pat (Prodotti Agroalimentari Territoriali) dell’Irpinia. Potremmo arrivare a 140, quelli della provincia di Avellino nell’elenco dei 601 Pat della Campania. “Uno straordinario scrigno di tipicità e serbatoio di forza economica che va valorizzato”, dice il dottor Vincenzo D’Amato, Presidente Ordine Veterinari di Avellino e coordinatore della Federazione Nazionale sui Pat. Negli ultimi anni, come un Diogene, D’Amato è andato a scovare questi prodotti per inserirli nell’elenco regionale (poi in G.U.) e offrire ai loro produttori una vetrina per guardare lontano, ben oltre i confini provinciali e regionali.
Di qui un percorso di valorizzazione che ha visto una prima tappa nella serata “Divini irpini”, tenutasi presso “Il Mulino della Signora” di Gianfranco Testa, il signore del Ravece e del Marinese. Una quindicina di produttori di Pat, per la prima volta messi insieme intorno allo stesso tavolo per raccontare le proprie storie, conoscersi e confrontarsi, scambiarsi esperienze, difficoltà, soddisfazioni e, soprattutto, per ragionare di futuro. Futuro possibile. Introdotti da due veterinari che ai Pat Campania hanno lavorato tanto, Angelo Citro e Sabatino Troisi, sono scesi in campo loro, i produttori.
Belle storie di tenacia, amore per la propria terra e tradizioni (servono 25 anni per essere Pat), ma anche moderno e ostinato spirito d’impresa. Ecco Franchino Forgione, da Rocca San Felice, a raccontare la storia del suo formaggio Carmasciano, dai 200 capi attuali di pecore al progetto per un nuovo allevameno da 1000. «Eppure – dice – noi il formaggio lo facciamo come una volta, con il fuoco». Dalle donne imprenditrici sinceri racconti, grande forza. Sara Moscariello è Presidente della coop del Pecorino Bagnolese, con 18 allevatori. «Diamo visibilità agli “invisibili”, gli artigiani, gli allevatori, i produttori. In dieci anni passi da gigante ma altro bisogna fare», ammonisce. Una bella testimonianza di concretezza la porta Michele Scrima, di Savignano. Sette anni a “rubare” il mestiere in Locatelli, poi il ritorno a casa. Lavora 120-130 quintali di latte irpino e beneventano, ogni giorno, per produrre il pregiato Caciobarile, il caciocavallo con l’occhiatura. Un fatturato tra i 3 e 4 milioni di euro all’anno. Capito che numeri?
E che dire della straordinaria storia di Nicola Barbato, un tenace montorese che ha passato la sua “prima” vita con le coltivazioni di tabacco fino alla dovuta (e meno male) riconversione alla coltivazione della cipolla ramata di Montoro: «Una cipolla straordinariamente dolce, prossima alla certificazione Igp, dolce grazie alla bassa quantità di solfuri epperò incredibilmente tenace tale da renderla l’ideale per la lunga cottura della genovese». Oggi Casa Barbato “significa” cipolla ramata di Montoro come sistema imprenditoriale capace di affermarsi. «Non piangiamoci addosso, rimbocchiamoci le maniche, facciamoci sentire», dice Barbato. Un invito all’impegno che raccoglie in pieno Nadia Savino, laurea alla Luiss e master all’estero, di Gesualdo, azienda Bioluc a Calvi (Benevento). «Perché torni qui, non c’è nulla da fare, mi diceva mia madre. Io ho iniziato da 30 ettari, riscoperta dei grani, farine, trasformazione in pasta fresca e prodotti da forno, ora con l’entrata di agricoltori locali siamo a 300 ettari. Grani irpini e sanniti, che orgoglio. E tante donne in azienda. Andiamo avanti, mettiamo insieme i Pat irpini», arringa Nadia. Tenacia irpina confermata da Ernestina Gambale, tartufi bagnolesi con “Re del Bosco” e poi dalla giovanile lungimiranza di Felice Perillo, che a Castelfranci “per gioco” ha riscoperto e imbottigliato la Coda di Volpe Rossa, sì rossa, e Antonio Ciani, caciocavallo conservato in grotta a Bisaccia con “Le Ferregne”. E poi la presenza di Angelo Del Sordo, della mitica “Nonna Rosina” di Nusco e di altri produttori.
E se dal professore Sandro Strumia, Università Vanvitelli, arriva l’esaltazione della sostenibilità ambientale del territorio irpino, è Antonio Limone, Direttore dell’Istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno a tirare le somme: «Bisogna uscire da qui con l’idea di un paniere d’Irpinia dei Pat per dare concretezza alle vostre straordinarie storie di resilienza e coraggio». Annuiscono gli imprenditori, primi passi compiuti a Sturno, come conferma orgoglioso Gianfranco Testa, cortese anfitrione di una serata importante, assai utile all’Irpinia.
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