“Una moglie morta sedici mesi dopo le nozze; un’altra suicida dopo avergli dato due figli; un figlio (non amato) fucilato dai tedeschi e un altro morto alcoolizzato dopo sette anni di prigione. La figlia (Svetlana Allilueva) fuggita negli USA dopo la morte del marito”.
Ritratto di famiglia di uno degli uomini più potenti e discussi della storia Russa.
La figura di Stalin ancora oggi divide non soltanto i russi ma anche gli storici e gli amanti della verità che, come me, venuti a conoscenza del potere personale esercitato, a partire dagli anni venti del secolo scorso dall’uomo dai folti baffi neri, con un proverbiale pugno di ferro contro la povera gente e contro la classe politica, non riescono a capire dove arrivi la crudeltà degli uomini. Alcuni, tuttora, lo considerano un eroe e salvatore della patria per la vittoria conseguita nella seconda guerra mondiale, altri, invece, non si sono lasciati avvincere da tanto, ma hanno seguito le orme della storia che ha visto la Russia giocare un ruolo fondamentale nell’organizzazione politica del paese, che limitò al massimo l’ideologia comunista sovietica in senso imperialistico.
Stalin non era un intellettuale. Era un uomo dotato di una intelligenza straordinaria che consumò nell’organizzazione (sua migliore qualità) e nella nascita del socialismo in un solo paese. Teoria politica, secondo cui l’Unione Sovietica andava potenziata al massimo, in modo definitivo e irreversibile, sia industrialmente che militarmente.
Supportato da dette idee, Stalin seppe coinvolgere in questo progetto i burocrati del partito per la costruzione di un socialismo su base internazionale. Iniziò, così, partendo dal 1929, con l’abolizione della nuova politica economica di Lenin, collettivizzando l’agricoltura e avviando una decisa industrializzazione per tappe forzate abolendo la proprietà privata e istituendo i famosi “piani quinquennali”, che sortirono per la Russia un effetto devastante che colpì in modo piuttosto pesante sia i contadini benestanti che quelli più miseri: venticinque milioni di poveri cristi.
Chi di essi provava a resistergli, veniva arrestato dalla polizia politica e deportato o spedito nei Gulag, reti di campi di concentramento in cui si lavorava in condizioni atroci, spesso fino alla morte. La collettivizzazione e l’industrializzazione peggiorarono ancor di più le condizioni di mortalità e carestia. Ciò, costò la vita a circa dieci milioni di contadini.
“Negli anni tra il 1934 ed il 1939 la paranoia regnò in tutta l’Unione Sovietica: vennero giustiziati, per sua volontà, 93 membri su 139 del Comitato Centrale del Partito e, in tutto, in circa cinque anni, vennero accusati di anticomunismo e spediti nei gulag 3 milioni di russi”.
Così facendo, Stalin riuscì a domare il Partito Comunista e l’élite sovietica. Questi era Stalin, e tutto ciò che so di lui. Se facciamo i conti, ci accorgiamo che Hitler e Mussolini erano nei suoi confronti dei semplici seminaristi. E ditemi, può un uomo di tale fattura restare inerme di fronte alla morte e ritrovarsi in lacrime ascoltando la musica di un pianoforte? È la domanda che mi pongo spesso. Fake news? Mah! C’è di certo che fonti storiche di un certo spessore sono concordi nel riportare per vera la notizia. E credo che, non soltanto io, ma anche voi, forse, vi chiediate come ha potuto quel signore che tanto male ha fatto all’umanità lasciarsi prendere dalla commozione o, addirittura, dal dolore e da una profonda afflizione? Occorre interrogare in merito gli psicologi della percezione per averne contezza, non soltanto negli aspetti uditivi della musica, ma anche nel mettere, in relazione della stessa, emozioni e strutture musicali.
Non credo proprio che Stalin si addormentasse ascoltando musica triste. Un diavolo d’uomo qual era, credo si addormentasse pensando a chi “far fuori” all’alba del nuovo giorno, non soltanto fisicamente.
Aristotele, che non conosceva il pianto di un violino e l’armonia del pianoforte, parlando di musica affermava: “…La musica non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione, per procurare la catarsi e, in terzo luogo, per la ricreazione, il sollievo e il riposo dallo sforzo”.
Quando quella volta Stalin pianse, era una fredda notte del ’43. Sulla Capitale piovevano, miste a tuoni e lampi, mortali bombe naziste che impedivano alla stremata popolazione di dormire. Anche se dormire, in quei tempi, era soltanto un’azzardata metafora dell’esistenza, una sfida alla sfortuna, Josef Stalin, che del sonno non era un amico costante, era in ascolto alla radio del concerto n.23 k488 di Mozart. I lampi, di tanto in tanto, tacitavano la melodia e lui, nella sua incommensurabile potenza, non riusciva a trovare un sistema (magari un classico pugno sulla cassa dell’apparecchio) per ripristinare lo scorrere regolare della musica che gli stava rubando il cuore. Arrivato all’Adagio, parte seconda dell’opera, il dittatore che non conosceva pietà, si ritrovò in lacrime. Era emozionato a tal punto da alzare il telefono e chiamare, lui stesso, la sede di Radio Mosca e imporre allo esterrefatto funzionario di fargli avere, al Cremlino, il disco dell’esecuzione. Impossibile! Il disco non esisteva. Si trattava di una diretta eseguita dalla pianista Marija Judina che, nella notte, venne convocata d’urgenza dal “dittatore”, verso cui il termine “impossibile” non era da usare. Se la richiesta veniva dal Padre dell’Unione Sovietica, quel disco doveva essere fatto senza tergiversare! Riunita l’orchestra e la pianista solista, la registrazione, in una notte, fu fatta puntualmente e, con gli inchini e le scuse, la mattina dopo venne depositata sulla scrivania di Stalin.
“Marija Judina, era un’artista ribelle. Una donna singolarissima, un’irregolare fuori da ogni convenzione, innamorata di Dio e di Bach, com’era adusa dire: bella nel fisico e nella mente”.
Quando Stalin, per ringraziarla, le fece avere 20mila rubli (una cifra strepitosa per l’epoca), lei, con un gesto folle, rifiutò la somma senza mai restituirla al mittente. Al rifiuto aggiunse: “La ringrazio. Pregherò giorno e notte per lei, e chiederò al Signore che perdoni i suoi gravi peccati contro il popolo e la Nazione. Dio è misericordioso, la perdonerà. I soldi li devolverò ai restauri della chiesa in cui vado”.
Ho tentato più volte in questi giorni di ascoltare il concerto di cui trattasi. Mi sono anche dato dei forti pizzicotti sulla pelle, cercando il dolore, e mi sono anche mortificato pensando a cose tristi che mi sono capitate nel corso della vita: la perdita improvvisa di mia moglie; il dolore delle mie figlie, e, pur essendo un romantico impenitente, non sono stato capace nell’ascoltare la Judina di tirar fuori dai miei occhi una scarda di lacrima. Ho tentano anche di ripetere (si fa per dire) sulla tastiera del mio pianoforte la parte facile, priva di tecnicismi, dell’Adagio “incriminato”, senza ottenere risultati soddisfacenti (sono un buon lettore delle note ma anche un mediocre esecutore). Eppure, mi commuovo facilmente: piango per niente e, con riferimento alle melodie strappalacrime, non riesco a frenarle nell’ascoltare una canzone straziante di Luigi Tenco, di Sergio Endrigo o di Domenico Modugno, E piango, talvolta, ancor di più quando le gocce mi invadono la bocca e il sapore di sale delle stesse mi accende la fantasia trasportandomi in un mondo occulto, nella trascendenza e nel sacro non riconducibile all’esperienza poiché, in esso, intravedo qualcosa di divino per la sua collocazione esclusiva nelle lacrime e nelle acque del mare.
Un esperimento ingenuo, il mio, che non approda da nessuna parte. Tuttavia, mi fa capire che Stalin quella notte non ha pianto perché colpito dai flussi della melodia mozartiana, che ha funto da vettore come l’RNA del Covid19 quando viene inoculato nel circolo sanguigno con l’elemento vaccinale. Credo, piuttosto, che lui quella notte abbia subito una forte crisi esistenziale, un’insorgenza della coscienza, una spinta catartica che gli hanno aperto la strada che conduce verso un (im)probabile pentimento.
Antonio Cella
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