La nostra civiltà è fragile. Abbiamo bisogno di umiltà e di misura

di Paolo Saggese

Avevamo tanto fantastico, per alcuni secoli, soprattutto nel Novecento, sulla futura fine del nostro mondo. Abbiamo ipotizzato che l’autodistruzione sarebbe venuta da guerre atomiche, da asteroidi arrivati dallo spazio, persino da invasioni spaziali.

Poi siamo passati ad altre teorie, quelle che hanno visto nel futuro prossimo la fine della Terra, a causa della nostra azione distruttrice. Adesso possiamo formulare anche altre teorie.

Abbiamo scoperto che ci sono nemici silenziosi, che siamo fragili, che anche i più potenti sono fragili e indifesi.

Siamo passati dalla celebrazione dell’uomo prometeico, che sfida gli dèi, alla celebrazione della razionalità umana, capace di comprendere il mondo e il tutto, dalla celebrazione del pensiero produttore di civiltà alle ideologie che sono tramontate con il secolo breve, dal rifugio nell’edonismo alla ricerca di felicità nel consumismo.

Adesso stiamo comprendendo la nostra fragilità.

Il nostro mondo si poggia su basi fragili. In fondo, cosa siamo, se non un po’ di carne, ossa e nervi?

Tutte le nostre certezze stanno venendo meno.

Sta vacillando la fiducia nella nostra capacità di dominare la Terra e gli eventi, sta vacillando la nostra eccessiva e presuntuosa idea del mondo antropizzato.

Una minaccia mette in discussione la libertà di 7 miliardi di esseri umani. Siamo inermi.

La Terra si sta riprendendo gli spazi. Gli animali escono dai boschi, piano piano sono arrivati sotto le nostre case, frequentano le nostre piazze. Noi restiamo dentro, nascosti, loro escono.

Tutto ciò prefigura un mondo senza umanità. La Terra allora si prenderebbe gli spazi lasciati liberi.

Se l’homo sapiens scomparisse, con lui scomparirebbe subito la sua civiltà. La ruggine, l’acqua, il vento, il sole, il gelo distruggerebbero palazzi, strade, ponti, le foreste e i boschi ricoprirebbero città e paesi, dopo un secolo ci sarebbero solo vestigia coperte da erbe, radici, fogliame, fango, terra. Sarebbe tutto sepolto.

La vanagloria umana sarebbe servita.

Quanti sono vissuti per l’eternità? Quanti hanno pensato di lasciare una propria impronta nella storia? Tutto scomparirebbe.

Il tempo ne farebbe polvere.

L’uomo dovrebbe imparare il sentimento dell’umiltà.

L’umiltà potrebbe salvarci. Se solo ammettessimo la nostra debolezza, se solo trovassimo la misura perduta.

Potrebbe salvarci il pensiero meridiano, quel pensiero iniziato con la filosofia ellenistica, passato per il pensiero dell’Ottocento e arrivato all’esistenzialismo, a Camus, Sartre, Pasolini, Fromm, sino alle teorie della lentezza degli ultimi anni e dell’ecologismo.

Solo se l’uomo scoprisse l’importanza dell’equilibrio, della misura umana, ci potrebbe essere una salvezza.

Come avrebbe detto Einstein, l’uomo è passato tra gli alberi, ma non ha visto la foresta. La nostra vita frenetica ci porta a non comprendere le ragioni della nostra vita, sono gli altri che decidono per noi, è altro che decide il destino dell’uomo.

Con la nascita della società capitalistica e consumistica, sempre più il Capitale ha deciso le sorti “progressive” dell’uomo. E quando le ideologie sono state sepolte, l’homo oeconomicus ha trionfato.

Abbiamo creato una grande trappola, fondata sui “valori” della ricchezza, del successo, della carriera, del consumo, del piacere. Così tentiamo di sconfiggere la noia. Mentre dovremmo riscoprire altro, la semplicità della felicità.

Abbiamo smarrito l’idea della felicità.

In fondo, cosa significa essere felici? Io stesso l’ho dimenticato. Essere felici significa essere giusti, essere virtuosi, vivere in armonia con gli altri, pensare agli altri, volersi bene.

Noi abbiamo pensato, invece, che l’unico uomo felice potesse essere il ricco sovrano di Lidia, Creso.

Un giorno di più di due millenni e mezzo fa, secondo Erodoto (ma l’aneddoto è storicamente infondato), uno dei sette sapienti, Solone, esiliato da Atene e giunto dal re, fu ospite nella sua lussuosa reggia.

Creso lo invitò a visitarla, gli mostrò i suoi tesori, poi gli chiese chi fosse l’uomo più felice del mondo.

Il re si aspettava che Solone rispondesse che lui, il re di Lidia, fosse l’uomo più felice del mondo.

In realtà, Creso non era né il primo né il secondo uomo più felice del mondo.

Un uomo felice Solone lo aveva conosciuto, una volta. Era un suo concittadino, che si chiamava Tello. Era un uomo semplice, giusto, che aveva sempre servito la sua patria, non aveva mai demeritato, era morto, lasciando i suoi figli in vita, che lo avevano sempre rispettato e amato. Quando morì, la sua patria gli tributò funerali pubblici e probabilmente ne pianse la morte.

Noi abbiamo aspirato nel corso della nostra esistenza a diventare tutti come Creso, che poi sarà travolto dalla sua stessa tracotanza, bruciata la sua reggia, saccheggiato il suo tesoro.

L’uomo sapiente riconosce la virtù di Tello, l’uomo stolto ammira Creso.

Noi siamo un’umanità abbagliata dalle luci della ricchezza, perciò stiamo distruggendo la Terra e la nostra civiltà.

L’umanità come uomo planetario è ad un bivio. O cambiamo strada oppure avremo ancora tanti rischi da affrontare.

E per questo dobbiamo tornare al pensiero meridiano.

Se invece pensassimo che ritorneremo a vivere come un tempo, allora forse dovremmo ammettere che non abbiamo compreso nulla, che come al solito siamo stati incapaci di comprendere la realtà.

Paolo Saggese

(da Fuori dalla Rete, Maggio 2020, anno XIV, n. 2)

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